Vada la via dei Cavalleggeri

                    I CORSARI NELLA SECONDA META’ DEL XVIII SECOLO
Subito una distinzione importante: la  corsa era una legale rappresaglia, un modo di guerreggiare contro una nazione nemica che richiedeva l’autorizzazione del monarca o del governo concessa mediante lettera di corsa o di marca, mentre la pirateria era una corsa illegale per predare le navi del loro bottino.

Nel 1748, quando il Consiglio di Reggenza dei Lorena decise di disarmare le galere di S. Stefano, riducendo il glorioso Ordine voluto dai Medici (vedi) ad una istituzione di parata priva di potenziale operativo, erano in corso le trattative con i potentati turchi e barbareschi sfociate nei trattati di pace del 1749.

La scelta di privare il Granducato di una flotta militare potente ed efficace alcuni la imputano alla volontà di incrementare, da un lato le entrate delle casse imperiali di Vienna riducendo drasticamente le spese militari, altri alla mal riposta convinzione che ciò avrebbe reso meno aggressivi i loro antagonisti barbareschi evitando di provocarli con spedizioni armate sulle coste africane e dell’Egeo. Comunque sia già nel 1758 due unità tunisine, uno sciabecco  ed un pinco, erano state richiamate all’ordine ed al rispetto dei trattati a colpi di cannone dalle batterie del porto di Livorno poiché avevano tentato di uscirne in corsa per aggredire un naviglio straniero.

Il maresciallo Botta Adorno scriveva da Firenze al Conte Pandolfini in merito anche ad un altro episodio avvenuto in Gorgona il 20 settembre 1764. Due galeotte tunisine volevano partire nonostante il divieto del castellano dell’isola, poiché a due miglia a largo avevano scorto due barche coralline in avvicinamento. L’episodio era finito con alcuni spari d’intimidazione ma anche nel dicembre del 1763 il Rais Alì con i suoi due bastimenti aveva messo a dura prova la imparzialità dei toscani ed il rispetto dei trattati e degli accordi insistendo per uscire dal porto, mentre erano esposti al fanale i segni  che attestavano l’arrivo di alcune navi, per predarle. In realtà era molto più facile imporre la neutralità del granducato ai corsari di altre nazioni piuttosto che ai barbareschi, da sempre poco inclini a rispettare gli accordi.

Significativo delle difficoltà alle quali andava incontro il porto di Livorno, è la vicenda iniziata il 23 ottobre 1764 con l’arrivo della tartana tunisina armata in corso comandata dal Rais Mehemet Saccalis, un rinnegato greco al servizio del Bey di Tunisi. A bordo era scoppiato un grave caso di ammutinamento, degenarato in aperta rivolta che solo l’intervento dei dragoni e delle guardie di sanità, inviate dal Governatore Bourbon del Monte, aveva impedito gravi conseguenze. Di concerto con il rais, dodici ribelli furono arrestati e richiusi nelle carceri del lazzeretto con la promessa di restituirli al alla partenza. Purtroppo i ribelli, al momento di salpare, provocarono un nuovo e più grave tumulto, per questo il Governatore si fece saggiamente rilasciare dal Rais una dichiarazione scritta relativa al comportamento dei suoi uomini. Questa avrebbe giustificato  in seguito al Bey  qualunque operato dello stesso Governatore sia per la concessione di protezione ed aiuto al Rais nel tornare a Tunisi, sia nel caso in cui avesse deciso di accogliere a Livorno i ribelli evitando loro le terribili punizioni che li attendevano in patria.

Le trattative non portarono a nulla e la sera del 27 novembre la situazione precipitò con un tentativo di incendio della tartana ad opera degli ammutinati. Intervenute le guardie vennero nuovamente arrestati tranne i sette marinai rimasti fedeli al Rais.

La situazione di stallo venutasi a creare non aiutava certo la diplomazia granducale alle prese anche con le manovre destabilizzanti di personaggi come Demetri MarcacKi, avventuriero greco favorito del sultano ed agente del Bey a Tunisi.

L’arrivo a Livorno di una nave inglese parve una buona occasione per sbloccare la situazione, il Rais fu invitato a partire sotto la sua scorta ma questi tergiversava ed allora il Botta Adorno invitò il Governatore a farsi rilasciare un’altra dichiarazione liberatoria dal comandante tunisino. Il Bey fece pervenire un promemoria di lagnanze e richieste talmente contorto nella forma e sibillino nei contenuto da sconcertare ulteriormente i governanti toscani.

Finalmente il 9 gennaio 1765 Saccalis partì con la propria tartana sotto la scorta della nave inglese con i pochi fedeli mentre il restante equipaggio restò a Livorno creando non pochi problemi.

Ai primi di febbraio, tramite un mediatore ebreo che si accollò una buona parte delle spese di nolo, anche i ribelli vennero rimpatriati; i Lorena avanzarono richiesta per il rimborso delle spese sostenute per la loro forzata permanenza in Livorno, richiesta pertanto rimasta insoluta dal momento che il 15 gennaio il Pascià aveva dichiarato la rottura definitiva dei trattati di pace stipulati con la Toscana. La notizia giunse con grande ritardo e solo nell’aprile se ne ebbe la certezza. A seguito di ciò Bourbon del Monte si rammaricava con il Console Imperiale a Tunisi della vicenda  in quanto, se la notizia della rottura di pace fosse giunta in tempo, avrebbero potuto trattenere i ribelli come ostaggi.

Mentre il Pascià di Tunisi concedeva un armistizio alla Toscana protrattosi fino ad ottobre 1766,  il vero pericolo si manifestò con le scorrerie degli algerini. Il 7 aprile 1765 una tartana ed un leuto usciti dal Porto di Livorno furono attaccati da uno sciabecco di corsari appostati presso la Gorgona. Dopo un breve inseguimento la tartana riusciva a fuggire mentre il leuto Madonna del Buon Consiglio  veniva sopraffatto e catturato, l’equipaggio messo alle catene e la barca convertita in un predone.

I due bastimenti  furono avvistati poco dopo bordeggiare sotto la torre del Romito pronti ad attaccare quanti fossero passati a tiro ; con il leuto venne catturata una tartana napoletana il cui equipaggio si salvò con le scialuppe sbarcando nei pressi di Antignano. Poi fu la volta di un navicello fiorentino, tutto sotto gli occhi dei castellani del Romito e di Calafuria che rispettivamente spararono 25 e 12 colpi di artiglieria senza arrecare loro alcun danno. Lo sciabecco corsaro, fattosi più temerario e forte della palese impotenza dei toscani, continuò a spadroneggiare sotto costa per alcuni di giorni finchè, una furiosa tempesta, lo costrinse ad allontanarsi lasciando il leuto alla deriva. Questo, per non affondare, si spiaggiava, i dieci corsari algeri  che erano a bordo venivano catturati e fatti schiavi nel Bagno della Fortezza.

Il Governatore anche in questa circostanza potè constatare con suo grande rammarico l’assoluta inefficienza della cosiddetta flotta militare granducale. La fregata Alerione ed il Brigantino Rondinella erano in disarmo ed inutili furono le richieste di intervento rivolte al Cavalier Acton, Capo della Marina. Questi, conforme agli ordini del Governo di Vienna era restio nell’impegnare in combattimento le sue navi e tergiversava vergognosamente. Anche i mercanti livornesi, preoccupati della possibile crisi derivante dalle scorrerie piratesche, si offrirono di armare uno sciabecco di proprietà di un inglese, Tommaso Wilson. L’operazione non ebbe seguito a causa dell’opposizione dell’Acton, anche se Bourbon del Monte avrebbe preferito comunque l’azione, pur bleffando, non essendo convinto della riuscita dell’operazione con una nave riadattata a fronte di un nemico armato con venti cannoni.

Su tutta la questione aleggiava beffarda l’ironia popolare, che pur consapevole dei rischi non poteva sottrarsi dal lanciare argute frecciate all’indirizzo di un governo così imbelle ed inetto. In conclusione vennero predisposti rinforzi al Forte dell’Antignano, al Corpo di Sanità di Cecina, fu fortificato il lazzeretto livornese ed aumentato il distaccamento dei cavalleggeri. Il Governatore rinnovava in molte missive l’invito al Governo per un’azione decisa forte della convinzione che è meglio prevenire che essere prevenuti ed è meglio essere battuti che essere sorpresi. Pur se vecchio il Bourbon del Monte era pronto ad affrontare il problema ben sapendo che la loro debolezza avrebbe attirato altri predoni con conseguenze gravissime, ma il Governo sempre più cauto e circospetto preparando il questo modo la decadenza commerciale di Livorno. Il 15 aprile le due navi della flotta granducale uscirono in perlustrazione, ma ormai lo sciabecco algerino carico di prede, era già nel canale di Piombino costringendole ad un mesto rientro.

 Per rappresaglia furono tolte le patenti ed i passaporti al MarcacKi che, capitato a Livorno, rappresentò il capro espiatorio dell’intera vicenda. Tutti questi eventi non servirono di lezione al Governo tanto che, ad ottobre il Botta Adorno ordinava di nuovo il disarmo dell’Arione e della Rondinella, l’anno seguente, 1766, lo stesso maresciallo disponeva che la nave Leone fosse tenuta in grado di essere in mare ad ogni occasione, senza attendere di qua ora l’ordine in caso di emergenza.

Il 27 luglio dello stesso anno i barbareschi cercarono di conquistare l’isola di Gorgona. Il capitano De Leon, dopo aver inutilmente tentato di difendersi con il cannone, fece accendere un grande fuoco come segnale di gravissimo pericolo; questo accolto a Livorno determinò l’immediata partenza del brigantino La Rondinella all’inseguimento dei pirati. Il primo agosto, una lettera da Cartagena, avvisava della prossima partenza dal porto Salè di uno sciabecco bene armato e con 100 uomini di equipaggio diretto verso le coste tirreniche. Questa volta il Governo dava disposizioni al comandante Acton perché fosse pronto ad intervenire. Forte del cambio di rotta dell’amministrazione il Governatore faceva la voce grossa con i corsari tunisini presenti a Livorno in momentanea tregua, ne fece arrestare quarantuno perché ribellati  al loro rais minacciavano la tranquillità della città.  Il 17 ottobre erano stati reimbarcati e questi, timorosi di ulteriori sanzioni, ripartirono il giorno stesso. Evidentemente i toscani, consapevoli di una maggiore   potenzialità difensiva non avevano alcun timore ad imporre la loro volontà. Una guerra di successione al trono scoppiata in Barberia causava un rallentamento delle trattative di pace con soddisfazione degli imperiali che non amavano fare regali due volte, prima al vecchio bey e poi al prentendente al trono Sidi Unes.

     Nel 1767 le imprese barbaresche si rinnovarono a carico delle coste maremmane; il Governatore di Grosseto Guillermin per questo chiese aiuto a Livorno. In merito Bourbon del Monte sollecitava il Rosenberg, successore del Botta, per disporre l’armamento rapido delle due navi da guerra. La prima uscita della fregata L’aquila avvenne il 10 giugno a quasi tre mesi dalla prima segnalazione della presenza dei corsari e per questo si rivelò del tutto inutile ai fini difensivi. Il resto dell’anno ed anche quello successivo trascorsero senza grossi problemi perché la guerra marittima tra i ribelli corsi ed i genovesi rendeva le acque dell’alto Tirreno pericolose anche per i corsari barbareschi.

     Fino al 1769, nonostante lo stato di guerra della Toscana con Tunisi ed Algeri, i rapporti con Tripoli di Barberia erano tranquilli. Il pascià Bey di Tripoli chiese la stipulazione di un definitivo trattato di pace con il granducato, quest’ultimo non lo ritenne necessario poiché le navi tripoline in passato raramente avevano attaccato le navi toscane che poco frequentavano le rotte orientali mediterranee. Tale scelta era giustificata anche dal risparmio di eventuali spese di rappresentanza e di regalie necessarie alla trattativa.

L’anno successivo, quando il pascià di Tunisi Sidi Mustafà Koggia, in occasione della vendita di un cavallo arabo per il principe Venceslao di Lichetenstein, ripropose  a Bourbon del Monte la ratifica della pace da anni rimandata, il governo toscano rifiutò sdegnosamente ancora l’invito. In ugual maniera i toscani si comportarono nel 1772 nei confronti del  Marocco e nel ’75 all’ennesimo tentativo del bey di Tripoli.

     Un episodio sporadico ma significativo fu quello avvenuto nel 1772 durante una delle rare crociere punitive intraprese dalle poche navi toscane. La nave da guerra Austria, dopo breve combattimento catturava una galeotta tunisina e la trainò in porto a Livorno ; la folla accorsa a vederla ed a stento trattenuta testimonia la rarità dell’evento. Il comandante Rais Ibraim Rodopolis, rinnegato greco, ed i suoi 34 uomini sopravvissuti vennero rinchiusi nel lazzeretto di San Rocco ed adibiti ai lavori forzati.

    Negli anni seguenti, a parte le imprese dell’Acton contro i marocchini che portarono alla pace separata con il sultano, continuarono le incursioni barbaresche sulla costa toscana senza che i granducali opponessero un vera difesa. Già nel marzo 1777 i corsari tornarono in forze con due galeotte ed un grosso sciabecco. Attaccarono diversi punti della costa e furono respinti a cannonate dalle torri e dai forti ; a giugno tornarono ancora più agguerriti ed attaccarono la Gorgona  il cui presidio riusciva a respingerli. Tre giorni dopo un altro veliero depredava la costa fra bocca d’Arno e Viareggio. Il granduca Pietro Leopoldo infastidito e preoccupato ordinava allo Smith, successore dell’Acton, responsabile della Marina Militare, di uscire in crociera, ma questi consapevole delle poche forze a loro disposizione, pur uscendo in mare aperto evitò accuratamente lo scontro poiché aveva avuto l’ordine di non esporre troppo al pericolo la galeotta granducale. A seguito di ciò le incursioni si intensificarono mettendo in crisi, oltre al commercio, anche la pesca, fonte indispensabile di nutrimento della popolazione costiera ; il Governatore dette ordine di armare anche i civili. Significativo è l’episodio della galeotta tunisina naufragata sull’isola di Pianosa con circa 120 corsari ; il Rais con venti suoi uomini riuscì a raggiungere la Corsica a bordo di una zattera per chiedere aiuto. Avutone notizia, i toscani si mossero in notevole ritardo  per paura di non riuscire a gestire una tale emergenza, nel frattempo i tunisini aggredite quattro tartane napoletane, incautamente avvicinatesi all’isola, ne trucidarono gli equipaggi e con due di esse si allontanarono indisturbate.

     Fino al 1790, anno in cui Pietro Leopoldo lasciò il governo della Toscana, fu un susseguirsi di attacchi contro le sue navi, sia nei pressi della costa che in tutto il Mediterraneo, fino a Cadice ed oltre. Oramai era evidente che i governanti del granducato ritenessero tutto sommato meno dispendioso perdere qualche nave piuttosto che tenerne armate due o più nell’incerta speranza di impedire ulteriori attacchi.

     Nello scorcio del secolo furono però i corsari di altre nazioni, primi fra tutti i francesi, a creare problemi a Livorno, dove spesso, non rispettando la legge di neutralità del granducato, attaccarono e predarono molti bastimenti in uscita dal porto, senza aspettare le 24 ore canoniche di tregua fra la partenza delle potenziali prede e l’eventuale attacco. Anche in questi casi i toscani non poterono che limitarsi che a raccogliere le testimonianze delle sentinelle dei vari posti armati costieri con cui redigere un rapporto circostanziato da inoltrare con una nota di protesta ai francesi.