Castiglioncello ieri/Portovecchio   

1925 - La via Aurelia. A sx la trattoria 'Portovecchio' di Emilio Faccenda. Gli alberi sono appena piantati. Sullo sfondo la chiesa. 1924 - La chiesa ancora da intonacare aperto al pubblico il 31 agosto. 1929 - La chiesa non ha ancora il portale ed è intonacata solo nella parte superiore. A destra la canonica di Don Carlo Gradi. 1934 - La chiesa con il portale. A dx villa Michetti, a sx la scuola elem. distrutta durante la guerra. La chiesa negli anni'30 1950 - Bar Tabacchi Faccenda al posto della precedente locanda. A sx a una ringhiera zoomorfa dello specialista Duilio Franceschi. 1930- Portovecchio. Le trattoria Faccenda a sx e la chiesa in costruzione a destra. Notare la pompa di benzina sul marciapiede. Una seconda è a Caletta (Collez.L.Camuzzi) 1911 - La trattoria Faccenda, oggi 'Nonna Isola'. La nonna Isola è la signora col bambino in braccio. Anni '50 - L'Aurelia a Portovecchio davanti al bar Faccenda
 

Portovecchio. La trattoria Faccenda e la chiesa primi nuclei sociali

              I Faccenda a Portovecchio

Sabatino Faccenda, figlio di Giovanni, si era costruita la casa sul rettilineo di Portovecchio, dove oggi c'è la tabaccheria, e aveva cominciato col fare il pane e, in seguito, col vendere generi alimentari e iniziando a far qualcosa da mangiare per i rari passanti. La moglie del figlio Cecco, Isola Dani, aveva incrementato l'attività con la vendita di chincaglieria che andava a comprare a Livorno e la costruzione di alcune camere da affittare ad improbabili ospiti. Portò avanti l'attività fino al 1923 quando la regia passò nelle mani di Ida, moglie di Emilio. Davanti alla casa c'erano grandi olmi e per un certo periodo anche uno di quei bellissimi distributori di benzina che sembravano persone. Una conquista tecnica fu l'acquisto di un gasometro, una mostruosa macchina con tanto di paiolo per fare il bucato che poi veniva steso al sole sull'erba dei campi sopra la ferrovia. Le lenzuola delle camere dell'albergo venivano cambiate ogni sabato e i bambini venivano mandati a montar la guardia al bucato per evitare malintenzionati.

Sabatino aveva cominciato a lavorare, dai Bastiani: col calesse li portava in giro a Livorno o a Pisa. Cecco aveva chiamato un'impresa di Castelnuovo per ingrandire la casa, visto che aveva tre figli maschi e una femmina. I clienti non erano numerosi, ma in inverno, spesso c'erano le cene di dirigenti della Solvay oppure i pranzi organizzati da Probo Magrini, pezzo grosso del fascismo con villone in Poggio Allegro, che faceva venire da Livorno 2 o 3 musicanti per gli inni fascisti. Una volta portò lì anche Italo Balbo, il trasvolatore, che mangiò come un lupo. Il mese migliore era maggio, perché da Livorno venivano alla trattoria, quasi tutti i giorni, clienti per le maggiolate. Qualcuno passava e ordinava il menù e poi, il giorno stabilito, arrivavano con carrozze e cavalli, signori e donzelle che avevano solo voglia di bere, mangiare e divertirsi. Spesso le signorine salivano sui tavoli e ballavano sfrenate tra gli applausi al suono della fisarmonica. Ogni giorno c'erano 20 o 30 persone e spesso arrivava anche un amministratore dei cantieri Ansaldo di Livorno con un grande macchinone lucido e autista in livrea. In maggio c'era bisogno di aiuto e venivano a spennar polli e a strinarli sul fuoco il Cicio e la Cicia, marito e moglie contadini alla Ragnaia.

Ogni lunedì, poi, arrivavano i rosignanini, a frotte, in Gennaio e Febbraio, a far patelle. Arrivavano coi barrocci, il mare era di loro, ma un bicchiere al bar non lo disdegnavano. Il negozio era lungo e subito sulla destra c'era la mescita, il caffè e i tabacchi con le paste e le caramelle. Sulla sinistra una credenza con la cartoleria e quanto necessario per scrivere e due tavolini per giocare a carte. Più avanti a destra gli alimentari col grande macinino a mano del caffè e l'affettatrice dei salumi e lo spazio per la carta per fare i fagotti. A sinistra i grandi cassetti in legno con ante vetrate per la pasta. In fondo una doppia porta a vetri, con sopra una bella pendola, immetteva nella cucina col grande tavolo di marmo proprio di fronte alla porta. Finché ci fu Cecco a carte non si poteva giocare perché temeva il rischio della rissa. Uomo di severi costumi tollerava malvolentieri che un tal Mazzoni, ministro del regime, tenesse lì a pensione una sua amante ma, si sa, i soldi fanno passare in secondo piano anche le idee più probe.

Clienti fissi della mescita erano Tamburino, che passava col ciuchino per andare alla stazione a caricar bagagli o carbone, e Frontino che, con la carrozza, portava passeggeri alla stazione o dalla stazione li prendeva. Non era raro veder passare qualche malato grave steso su una lettiga, imbacuccato in una coperta marrone: singolare era il fatto che la lettiga era una specie di carretto spinto da due lettighieri a corsetta. L'ospedale era a Livorno e non è arduo pensare che, vista la distanza e lo stato delle strade, difficilmente il malcapitato poteva arrivare vivo a destinazione. Le provviste venivano fatte ogni lunedì: col calesse Cecco andava a Cecina a comprar quanto serviva e carne di maiale che veniva conservata nella cantina. In estate venivano i rari villeggianti e l'albergo, che si chiamava Portovecchio, si riempiva. Di svaghi ce n'erano pochi salvo qualche ballo o la tombola serale. Ci si divertiva con poco: andando sul ponte della Ragnaia a sentir l'eco rispondere alle grida o al modular della voce oppure a volteggiare una lunga pertica per attirare i pipistrelli che volavano in abbondanza. In Portovecchio c'erano i bagni dei Montezemolo che gestivano i Donati e poi i Salvadori e grandi montagne di alghe che servivano da materasso per i volteggi dei più atletici. Arrivò la guerra e dalla Ida i militari fecero la mensa ufficiali. I momenti alimentari erano difficili ma quel fatto fu una vera manna perché il mangiare era abbondante per tutti. Durante il passaggio del fronte la villa Cardon fu occupata dai militari e loro a lungo soggiornarono nella pensione. Dopo la guerra l'attività fu gestita per lo più da  Cecchino che, nel 53, chiuse la pensione e fece un bar colorato e moderno.

Prima che Ruffo aprisse il bar, giusto alla porta a fianco, e prima che arrivasse la televisione il bar di Cecchino fu il ritrovo più importante di Portovecchio, punto di ritrovo, di infinite discussioni su Bartali e Coppi, di lunghissime partite a carte per far passare le serate. Poi, sotto Natale, la sera si tirava fuori la ruzzola, un disco di gomma nera rigida con un foro centrale e si giocava il panforte. Erano serate memorabili: si apriva la porta della cucina, si faceva una riga in terra a circa sei metri dal tavolo di marmo e si cominciava. Ognuno pagava la sua quota e aveva diritto a un tiro lanciando la ruzzola, di piatto, sul tavolo: vinceva chi andava più vicino al bordo finale. Ad ogni turno il premio era un grosso panforte. La macchina del caffè era alta e cilindrica e di automatico non c'era niente, si dovevano utilizzare le due mani per regolare l'acqua e il vapore e il rischio che si correva era di dare al povero cliente invece di un buon caffè un terribile sciabordone. Il caffè si beveva nel bicchiere di vetro come il ponce, ma c'era chi al caffè preferiva la Strega o il doppio Kummel, il Sassolino Stampa e il Ferro China Bisleri.

Arrivò poi il biliardo, dopo la televisione, con le rumorose partite nella sala sul dietro, dove una volta c'era la cucina. Cecchino e Graziella tennero ancora aperto per circa 20 anni, poi, col cambiare dei tempi, l'attività fu chiusa dopo quasi 150 anni e un'infinità di persone, personalità e personaggi passati per un bicchiere o, semplicemente, per una parola. (Sintesi da: "Dar tempo dell'etruschi ar tempo de' caini" di Castaldi-Lami-Marianelli, scaricabile dalla sezione Scaricolibri del sito)
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 Dal 1950 al 1975 Ruffo e Lora Franceschi gestiscono il bar (Ruffo è figlio di Duilio, il costruttore delle panchine zoomorfe e della grottina della Lucciola). A Portovecchio ville ovunque si allungano su Via del Littorale, ma anche sulle strade a mare e intorno all'edificio delle scuole elementari. Incontenibile ormai anche l'edificazione lungo le vie a monte dell'Aurelia. Racconta Stevan Faccenda quasi un aneddoto, a proposito della lottizzazione di Portovecchio e Caletta dove spesso le strade sono talmente strette da rendere difficoltosa la circolazione odierna, che l'ing. comunale Michetti soleva ripetere assai realisticamente ai proprietari del terreno che facevano notare il minimo spazio destinato alla viabilità: "Ma tu la terra la vuoi vendere o la vuoi regalare?" (Vedi la Galleria fotografica di: Castiglioncello LA RAZZA DE'CAINI e altre storie).

                          La chiesa
Nel 1921, su un terreno concesso dall'avvocato Cardon e voluta da don Carlo Gradi sacerdote instancabile, iniziano i lavori per la costruzione della nuova chiesa in sostituzione della chiesina di S.Andrea presso la torre, ormai insufficiente. Il 17 dicembre 1922 la cerimonia solenne per la posa della pri
ma pietra. Don Gradi finanzia i lavori con denaro di famiglia e offerte dei fedeli raccolte con una sottoscrizione iniziata due anni prima. La canonica viene offerta dal padre Pietro Gradi. Sta così per raccogliere i frutti del suo impegno, visto che la la parte poligonale della futura grande cupola del nuovo sacro tempio dedicato all'Immacolata Concezione comincia a delinearsi nella breve via Gorizia, delimitata da una piazzetta. Solo dopo la guerra, dopo la parziale ricostruzione a seguito del bombardamento USA del giugno 1944, sarà possibile coronarla con la cupola che ancora fa bella mostra di sé rivestita in rame. Il primo parroco arrivato dalla Svizzera, terrà la cura delle anime per 44 anni. Morirà nel 1957.  

           Biografia di don Carlo Gradi nella sezione PERSONE
   

Per la storia della chiesa vedi anche Castiglioncello/oggi
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