Vada ieri

Città e contado nel XII secolo: Vada e Rosignano

In quanto a Vada e Rosignano, il diploma di Corrado II che ne lasciava all’arcivescovo il fodro, il placito ed il ripatico, aggiungeva anche le terre che vi possedeva la Marca di Toscana, a compimento di altri diritti che la Mensa pisana già vi godeva dal principio del XII secolo, allorché ogni casa dentro il castello dava 25 soldi di fodro ogni 3 anni, oltre a contribuzioni di generi alimentari da parte dei coltivatori. Questi due comuni, vicini e confinanti, procedono per molto tempo con sorti eguali, pur combattendosi essi per i diritti d’uso di una selva che i vadesi, cui sembra essa appartenesse, avevano in origine concesso per pubblico strumento al popolo di Rosignano e che poi negarono, intendendo che la concessione fosse stata «precario vel pretio». La causa, delegata dall’arcivescovo a due giudici del comune pisano nel 1142 e discussa alla sua presenza, è risoluta a favore della chiesa e del popolo rosignanese. Dopo di che, presenti l’arcivescovo stesso e due consoli di Pisa, i tre consoli di Vada investono feudalmente del diritto i quattro consoli di Rosignano, obbligandosi, in caso di violazione della sentenza, a pagar 50 lire, metà all’arcivescovo, metà al comune di Rosignano. Ecco il condominio pienamente esercitato su beni da principio di concessione arcivescovile, estendersi poi su tutti gli altri diritti e proprietà: perché estranei possano mettere giumenti a pascolare nei prati comunali, debbono consentirvi insieme il gastaldo arcivescovile e gli abitanti del castello; tutti gli atti di delimitazione di confini, di elezione di guardiani e cafagiari ecc., sono compiuti in comune. Curioso è il procedimento per fissare i confini in caso di contesa fra due castelli, come ci è mostrato a Rosignano e Castiglione. Fra gli uomini dei due luoghi si eleggono dei «terminatores»; e dopo che essi hanno compiuto il loro lavoro, va l’arcivescovo a fare un giro sulla linea di confine, seguito da tutti i rosignanesi. Messi i pilastri che servono da termini, «homines de Rosignano et homines Archiepiscopi» giurano non oltrepassarli. Ma perché la cerimonia e la disposizione del signore rimangano più impresse, l’arcivescovo «in memoriam eorum (dei confini) faciebat verberare pueros super terminos». Altrove, quando i diritti di giurisdizione arcivescovile sono stati tutti messi da parte, troviamo che, per ristabilire i confini antichi di un luogo o possesso pubblico, gli arbitri e giudici della città, col consiglio dei consoli della terra, eleggono un certo numero di vecchi «de melioribus » e li fanno giurare di dir la verità. L’espressione sopra ricordata ed assai frequentemente ripetuta di «homines de Rosignano et homines archiepiscopi» mostra chiaramente i due ordini di persone che ora sono in Rosignano. I primi, proprietari e vassalli, sono pienamente liberi, o soltanto soggetti al placito ed al fodro per titolo di diritto pubblico; abitano il castello e da soli, come sembra, costituiscono il comune, esclusi i coltivatori di terre arcivescovili o di altri signori — fra cui i conti Gherardesca — sparpagliati attorno nel territorio, soggetti a prestazioni servili ed obbligati a ridurre nel castello, nelle mani del gastaldo, le biade per il padrone della terra. A Vada e Rosignano, i conflitti con l’arcivescovo sono più aperti e risoluti che altrove perché la terra non è l’unica forma di ricchezza, né i prati comunali l’unico o principale oggetto dell’attività collettiva, né agricoltori e cattani i soli abitanti. Il fiume Fine, presso Rosignano, nella valle percorsa ora da un tratto della ferrovia mediterranea, era allora solcato in su ed in giù da legni che facevano il piccolo commercio rivierasco e quello fra l’interno e le coste. Né soltanto legni del luogo, ma anche di genovesi che pagavano una tassa di ancoraggio o di ingresso «fauciaticum», alla bocca del fiume, — diritto spettante ai signori del vicino castello di Castiglione che avevano terre lungo una riva del fiume, dalla foce in su — ed una tassa di ripatico quando giungevano ad un ponte presso Rosignano, divisa a metà fra quei signori stessi e l’arcivescovo; gli uni e l’altro accapigliati sempre in lunghi contrasti per questi diritti fiscali, per i confini delle due terre, per i boschi comunali, per i prati ove le mandrie di pecore garfagnine scendevano a svernare, pagando la tassa di pascolo. Nel 1203, la lite per il ripatico ed il pedaggio viene portata davanti ai pubblici giudici di Pisa e la sentenza data da essi e pronunziata dai giudici di appello dà ragione all’arcivescovo.
(NOTA: ARCH. MENSA ARCIV., Pisa, perg. n. 551, 25 marzo 1203. Il console di giustizia, per il podestà, mette il sindaco arcivescovile in possesso « in fauce de Fine et in porto Banardi (Barattuli?) etc., pro ripa et pedagio et jure ripagij et ripe castri de Rosignano et eius curte et de totis confinibus dicti castri de Rosignano»; e nel portico della pieve, presenti 2 consoli della terra, comanda ad Ugo Cacciabate di non molestare l’arcivescovo nel ripatico «tollendo aliquid hominibus euntibus ad supr. castrum cum mercibus ».)
 Oggetto di larga esportazione da Vada e da Rosignano dovevano essere il sale, dato da quelle saline sin dall’età longobarda, ed il grano. Sappiamo anzi che le Maremme erano appunto uno dei principali luoghi di rifornimento dei genovesi, quando la guerra aperta con Pisa non chiudeva loro in faccia le porte di quel granaio di Toscana. Tale allargarsi dei mercati strettamente locali, promosso dal crescer della popolazione, favorito dalla acconcia posizione, fu anche più appariscente a Vada, fornita allora di un discreto porto, il migliore forse, insieme con quello di Piombino, su tutta la striscia costiera da Pisa a Civitavecchia ed esposto quindi agli assalti dei genovesi sin dalla fine dell’XI secolo, sin da quando cioè la spiaggia toscana cominciava ad entrar nell’ambito dell’attività marinaresca di Pisa ed averne amici gli amici, nemici i nemici: ragione per cui la terra aveva cercato ed ottenuto protezione da Pisa che nel 1164 vi fece iniziare la fabbrica di un più forte castello, rimettendo agli abitanti, per 15 anni, la data che pagavano alla città.
(NOTA: Questo credo debba intendersi nella carta di pace fra Genova e Pisa nel 1138, BONAINI, Dpl. pis., p. 11, 19 aprile 1139. Se i vadesi non indennizzeranno i genovesi dei danni che eventualmente potranno loro fare, noi consoli pisani «expellemus eos a fiducia nostra, dicendo pubblice ut nullam habeant in nobis fiduciam» fino a che non osservino la nostra sentenza di indennità. Vedi la parola «fiducia» in senso di protezione chiesta e concessa, garanzia, promessa di sicurtà ecc. negli Annales Januenses, ed. BELGRANO, I, pp. 176, 181-2, 185 ecc.)

L’umore battagliero dei vadesi esplodeva pur esso contro l’arcivescovo per il possesso della selva Asca, fra la via maremmana ed il mare: e per decenni intieri son lotte continue, appena interrotte da brevi paci. Vi sono sentenze dei giudici di Pisa, contumacie dei consoli vadesi, non osservanza da parte loro di lodi pronunziati da arbitri eletti in comune, danni ed ingiurie al monastero di S. Felice ed al pievano di Vada autore di un lodo sfavorevole ai vadesi. I nunzi arcivescovili sono esposti a mille ingiurie; non si permette all’arcivescovo di prendere possesso delle terre aggiudicategli da lodi arbitrali e da sentenze di giudici. Scomunicato il comune di Vada, i consoli si appellano al cardinale di S. Marco, legato apostolico, contro i lodi e le scomuniche, mentre l’arcivescovo non vuol riconoscere nei consoli stessi il diritto di trattare per la comunità, quantunque asserissero fermamente di essere consoli e, «ad abundantiam», esibissero l’istrumento fatto dalla comunità «ad campanam pulsatam» nell’atto di eleggerli procuratori. Il legato finalmente li condanna a risarcire i danni e stare agli ordini della chiesa pisana per tutto quello per cui avevano ricevuto scomunica, dalla quale poi sono assolti l’anno appresso, 1228, quando il legato pontificio in Toscana fa concludere pace, tuttavia non duratura, fra i vadesi e l’arcivescovo.
(NOTA: Pochi anni dopo, il comune di Vada muove lite all’arciv. dinanzi al vicario imper. di Toscana, Pandolfo di Fasanella, sempre per le stesse ragioni. doc. anno 1240. L’arciv. pisano si appella a papa Gregorio (ARCH. MENSA ARCIV., Pisa, n. 761, 30 ottobre 1241); e nel 1242, dinanzi all’abbate di S. Michele in Borgo, delegato del vescovo pistoiese cui il papa aveva affidato la definizione ditali questioni, il sindaco arcivescovile produce altri richiami perché i vadesi non molestino la selva e diano 1200 1. per quanto erano stimati i frutti che in 17 anni si sarebbero potuti raccogliere da essi boschi e corte. ARCH. MENSA ARCIV., perg. n. 770, 9 gennaio 1242.)
 In mezzo a tanti contrasti, rotta ogni tradizione autoritaria, naufragava l’autorità effettiva dell’arcivescovo in quelle terre, dove ormai era venuto meno ad essa l’indispensabile fondamento reale, dacché le proprietà della Mensa, od usurpate dal comune di Vada o concesse in feudo o trasformate da terre servili a livellari o vendute ad agricoltori ed a mercanti, si erano straordinariamente assottigliate, nel tempo stesso che la comproprietà dei boschi era scomparsa conoscendo ciascuno la sua parte, e si era rotto così l’ultimo legame fra il signore antico ed il nuovo ente giuridico. Veniva meno, in mezzo al fervore dei piccoli traffici, anche il valore della terra: due appezzamenti di terreno comunale che i sindaci di Vada nelle liti con l’arcivescovo volevano dargli, in cambio di 200 lire che un lodo arbitrale gli aveva assegnato come indennizzo di danni, sono nel 1225 rifiutati perché, dice l’arcivescovo, ora valgono meno di 70 lire, «cum etiam terre majoris bonitatis et majores illis duobus petiis terre in illis partibus et contradis sint habite et empte satis pro minori pretio ab inde tempore infra ». Decade, in conseguenza di ciò, anche il monastero di S. Felice, una volta considerato fra i maggiori in Toscana ed ora, alla fine del XII secolo, costretto a vender le sue terre per pagare i debiti. E chi si avvantaggia dell’eredità? Il suddiacono Gualando, canonico di Pisa e legato pontificio, elegge sul luogo una commissione destinata ad invigilare sulle alienazioni: Mattolo di Rosignano, Tancredi, Torcione ed Adalardo di Vada. Forse sono i «boni homines» della comunità esercitanti per essa un diritto, come già sulla chiesa pievana e sopra i suoi beni; sono forse anche creditori del monastero, come tale era lo stesso canonico Gualando, di Pisa, per 400 lire, per le quali l’abbate gli aveva impegnato le terre poste nei confini di Rosignano. È questa un’altra arme con cui la città assale e sgretola alla base i vecchi organismi del contado, scossi dal disquilibri, che nei rapporti economici porta il XII secolo. Se ne avvantaggiano la città stessa di Pisa e le terre minori del contado per le quali il tempo del maggior fiorire e della maggiore autonomia di fatto è quello appunto che sta fra il rapido decadere dei signori laici ed ecclesiastici e lo stabile assetto che il comune cittadino dà al suo territorio, nella prima metà del XIII secolo: un periodo di incertezza in cui, fra il cozzare di grandi e potenti, i piccoli si ingegnano di farsi strada, e tanto più ne percorrono quanto più quelli sono affaticati a combattersi. All’arcivescovo di Pisa non rimane sugli uomini di Vada se non il giuramento che essi annualmente gli prestano di non offenderlo (!), di salvare e custodire i suoi beni. Nella prima metà del XIII secolo, questo comune conta intorno ai 500 abitanti e circa 150 sono gli uomini fra i 18 ed i 60 anni che partecipano alla vita pubblica, eleggono i consoli, si adunano in parlamento nella piazza della Pieve di San Giovanni, di fronte al mare. Vi predominano i pescatori e bottegai (apotecarij) e vi sono anche dei fabbri ed esercenti arti liberali; ve ne sono di indigeni di Vada e originari di terre attorno, trasmigrati in quel castello, più aperto ad attività diverse.
Da: "Studi sulle istituzioni comunali a Pisa" di Gioacchino Volpe (Sansoni editore 1970) Scaricabile dal sito

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