La fabbrica/La fornace sul Fine   

1917- Dipendenti alla fornace dei mattoni, lungo il fiume Fine presso i Polveroni 1918 - Occupati anche i minori. I bambini piccoli seguono le madri a lavoro Fornace Solvay. La vecchia ciminiera demolita nel 1982
 2007 - La steccaia sul Fine fra i Polveroni e l'Aurelia. Qui era la fornace 2007 - La steccaia sul Fine fra i Polveroni e l'Aurelia. Qui era la fornace La posizione della fornace e relativa steccaia sul Fine


1917 -
Per la fabbrica servono mattoni, presso i Polveroni lungo il Fine l'argilla abbonda
 con uno strato di circa 15 m. sotto 2m. di terra.
(Foto Aurili Cecina, arch. del sito e G.Zanoboni)

                    Fumigano intorno agli argini del fiume i "pignoni"  (Celati-Gatini)
Cataste ricoperte di ceppe d'erba e di zolle, forate, entro le quali le fascine bruciano in continuo per cuocere l'argilla.
 Al pari di una grande fattoria dell’Ottocento, che al suo interno aveva la fornace da laterizi per i propri bisogni edificatori, così l’industria Solvay si munì di questo impianto, non per vendere i mattoni, ma per usarli nella costruzione della fabbrica, delle case per le maestranze, delle opere sociali (scuole, teatro, impianti sportivi, ecc). Tali mattoni, murati a faccia vista (senza intonaco), sono ancora oggi ben riconoscibili in gran parte degli edifici realizzati dalla Solvay nel primo mezzo secolo della sua presenza a Rosignano. L'argilla del fiume Fine costituisce materia preziosa per far mattoni a portata di barrocci. Cinquanta milioni di mattoni saranno necessari per la fabbrica e l'agglomerato urbano da costruire. Nel primo anno la produzione è di 13 milioni di mattoni, che salgono a 25 milioni nel secondo. Lungo la riva ci sono terreni adatti per la fabbricazione e la pre-essiccazione al sole. Si comincia con l'arrivo dei mattonai belgi che lavorano sodo e senza risparmio, insieme a diciannove famiglie del posto, ingaggiate al completo con donne e bimbi, che sono presto in grado di aiutare validamente nel processo di fabbricazione. Il caposquadra belga accende il primo fuoco con una banconota da dieci franchi, in segno di augurio. Come manodopera vanno bene anche le donne che fino ad allora raccoglievano e lavavano la gramigna per venderla ai barrocciai lungo la via per Rosignano e la via del Littorale. Verso la fine della guerra arrivano vedove di Vada che hanno perso il marito al fronte e si portano dietro i figli piccoli. Pure i più grandicelli si danno da fare, il lavoro minorile è ovunque sfruttato e non è certo un problema. Cataste ricoperte di ceppe d'erba e di zolle, forate, entro le quali le fascine bruciano in continuazione per cuocere l'argilla, formano i «pignoni» che fumigano intorno agli argini del fiume. I mattoni formati ed essiccati, appena disponibili, vengono trasferiti e accatastati al Mondiglio, ai margini del terreno che viene spianato, e negli spiazzi adiacenti, pronti per l'uso. I signori al centro della foto 1 in giacca e cravatta sono presumibilmente responsabili belgi. Oggi di tutta questa attività durata quasi vent'anni, non resta più niente lungo il Fine tranne la steccaia che alimentava il laghetto dalla quale veniva prelevata l'acqua per lavorare l'argilla (Foto 3-4-5).
Foto 2 - In primo piano mattoni costruiti con le presse, prima di essere immessi in fornace venivano lasciati asciugare al sole in apposite piazze dette “aie”; i mesi più favorevoli per questa operazione erano quelli estivi. Sullo sfondo cataste già sfornate pronte per essere caricate sui barrocci e portate al Mondiglio per l'utilizzo durante la costruzione dei fabbricati dello stabilimento. Prevalentemente donne, ragazzi e anziani, i giovani sono in guerra o ne hanno subito le conseguenze dirette. Le donne portano sul lavoro anche i bambini quando non hanno dove lasciarli. Racconta Sirio Miliani che avendo appena pochi mesi, veniva portato nell'estate 1916, dalla madre fresca vedova di guerra, presso questa fornace dove era da poco occupata, per poter essere allattato e poi deposto su un giaciglio di paglia all'ombra di un fico, insieme ad altri neonati con madri operaie, fino alla nuova poppata. Poiché invece di crescere, i bambini calavano di peso, le madri preoccupate pregarono un vecchio dei Polveroni di sostare non lontano dai neonati per capire cosa succedesse. Il vecchio si accorse che una serpe metteva la coda in bocca ai bambini per fargli rigettare il latte e succhiarlo. Questa era, nemmeno un secolo fa la condizione lavorativa femminile e la tutela dell'infanzia possibile nelle nostre campagne. Situazione del tutto analoga anche alla fornace della Magona di Cecina.
   La fornace da mattoni “della Fine” o Fornace Solvay
“Trattavasi di una fornace che utilizzava materiale argilloso prelevato in loco, trattato, essiccato al sole e cotto nella fornace, produceva un materiale laterizio di colore caratteristico che la fantasia popolare denominò “mattone giallo Solvay” (“zoccoletti” per gli edifici e “radiali” per le ciminiere)”. Con questa sintetica, quanto efficace descrizione, iniziava la relazione allegata alla pratica di demolizione della vecchia ciminiera (Fig. 3), ormai pericolante, della fornace del Fine. Scompariva così l’ultimo segno visibile di questa gloriosa manifattura, con la quale furono cotti gran parte dei mattoni necessari alla costruzione della fabbrica e del Villaggio Solvay. Il 4 maggio 1923 la Società Solvay & C.ie formalizzava l’atto di compravendita con i Berti Mantellassi per £. 45.000 di “un appezzamento di terreno in luogo detto ‘La Fine’ avente sopra di se una fornace da vari anni fuori uso ed in parte in rovina, con casetta annessa composta di quattro vani a terreno..“ La manifattura, già esistente fino dal 1908, era così descritta al Catasto: “Fabbricato ad uso fornace da laterizi a sistema Lanuzzi con 16 forni, tettoia per deposito materiali e annessi”.
Prima di proseguire nella sua descrizione è opportuno fare un passo indietro. Nel 1913, quando la Solvay iniziò i lavori per la costruzione della fabbrica, i primi mattoni non furono comprati presso questa fornace, ma prodotti da mattonai fatti venire appositamente dal Belgio, che si avvalsero dell’opera “di diciannove famiglie del posto, ingaggiate al completo con donne e bimbi”. E probabile che la fabbricazione dei mattoni avvenisse con presse a mano del tipo Hercule o Dubois, molto diffuse in Belgio in quel periodo e capaci di una produzione da 5.000 a 6.000 mattoni per pressa in 8 ore di lavoro effettivo.
La materia prima era costituita dall’argilla depositata dal Fine e la cottura avveniva nelle sue vicinanze in semplici forni di campagna. La sabbia, usata come sgrassante da mischiare all’argilla, proveniva invece dalla località Molino a Fuoco (Vada). I luoghi dove si costruivano e cuocevano giornalmente una gran quantità di mattoni erano “al Mondiglio, alla parte a mare, ed a monte della Via Provinciale” ed uno dei proprietari confinanti, la famiglia Berti, ebbe a lamentare “danni gravissimi (da fumo) ai pendenti raccolti del grano, biade, orzi, granturco, erbai d’ogni genere, viti e grappoli d’uva nei terreni prossimi alla costruzione di detti mattoni”. La risposta della Società Solvay, di fronte a quella che forse fu la prima contestazione di carattere “ambientale” a dover subire dall’inizio del suo insediamento a Rosignano, fu che nessuna esalazione nociva era emanata dalla cottura dei mattoni, che il lavoro era intermittente e di breve durata.
In merito ai forni da campagna c’è da rilevare che essi presentavano il vantaggio di avere a disposizione una riserva considerevole di mattoni, permettendo di coprire i bisogni urgenti, ma la qualità degli stessi era scadente. Certamente migliori e più uniformi erano le produzioni ottenute dai forni continui, preferibili nei casi di bisogni regolari e considerevoli.
Dal 1915 al 1920 i lavori allo stabilimento si fermarono a causa della Prima Guerra Mondiale. A partire dal 1923, con l’acquisto e la rimessa in funzione di questa fornace “a fuoco continuo”, la Solvay si assicurava la cottura di 8.000-10.000 mattoni al giorno. Vicino alla fornace furono aperte nuove cave di argilla, che opportunamente analizzata  si rivelò idonea allo scopo. Intanto i carichi di sabbia provenienti dal Mulino a Fuoco avevano ripreso a transitare verso il luogo di fabbricazione dei mattoni con una frequenza di un barroccio al giorno (1923), che raddoppiarono a partire dal 1925. Il prelievo della sabbia dalle spiagge del litorale era soggetto a tassazione, regolamentato nei modi di estrazione e sorvegliato dagli agenti della Finanza; esso si protraeva da marzo/aprile sino alla fine di settembre, coprendo in tal modo tutta la campagna di fabbricazione. Anche il transito dei barrocci attraverso la pineta di Vada (nel tratto della Via del Galafone) prevedeva il rilascio di una licenza a titolo oneroso da parte dell’Amministrazione della Foresta Demaniale di Cecina. Una delle annate maggiormente documentate è il 1928. L’anno si aprì con il mancato rinnovo del contratto al fornaciaio Giuseppe Morroni che, come da accordi precedenti, lasciò libera la casa della fornace. In aprile iniziarono i sondaggi per l’estrazione dell’argilla nel vicino “Piano delle Sedici”; proprietario dei terreni era il Dott. Gino Vestrini che venne indennizzato per la perdita dei “raccolti pendenti”. Ma l’evento più importante fu certamente la “vertenza mattonai”, che vide gli operai mattonai della Solvay rivendicare una paga salariale in linea con una convenzione stipulata nel maggio dello stesso anno fra i rappresentanti dell’Unione Industriale Fascista e quelli dei Sindacati Fascisti della Provincia di Livorno. Il carteggio agli atti di quella vertenza offre un interessante spaccato delle condizioni di lavoro delle maestranze in quel periodo. In particolare, un dettagliato prospetto, redatto in data 25 luglio 1928, riassume il risultato del lavoro svolto da 9 squadre di mattonai composte da famiglie della zona, nonché la paga giornaliera percepita dagli operai adulti, dalle donne e dalle ragazze/i, questi ultimi di età compresa fra i 13 e i 17 anni. Da una sommaria elaborazione dei dati riportati nel prospetto risulta che in 605 giornate di lavoro furono prodotti 2.167.945 mattoni e che la produttività di un mattonaio variava, fra le diverse squadre, da un minimo di 60 ad un massimo di 93 mattoni/ora. Quando il combustibile utilizzato per alimentare la fornace era rappresentato da fascine di legno, queste venivano introdotte nel fuoco con l’aiuto di lunghe pertiche terminanti con una piccola forca. L’introduzione del legname nel forno era un’operazione delicata in quanto occorreva che la temperatura fosse il più uniforme possibile in tutte le parti del forno. Il fabbisogno era stimato in 1250 kg di legno per 1000 mattoni cotti; quando si passò al carbone il quantitativo variava da 250 kg per l’antracite a 150 kg per il carbone vagliato a fiamma lunga. Ovviamente i consumi di combustibile variavano in funzione delle dimensioni dei mattoni, della compattezza delle argille, del loro grado di umidità. Il calore all’interno del forno doveva raggiungere una temperatura di circa 1100°, anche se questa dipendeva dalla natura della terra d’impasto. Al fine di facilitare il passaggio delle fiamme, i primi sei tassoni di mattoni venivano posti nel forno verticalmente e sistemati in modo da costituire una specie di ciminiera (camino). Si comprende come la messa in piano dei mattoni ed il processo di cottura dovesse essere fatto da specialisti alfine di evitare bruciature. Il caricamento di un forno semplice (a “tino”) contenente 22.000 mattoni richiedeva 6 uomini, durante 3 giornate di 8 ore, mentre per la cottura erano necessari due giorni e due notti di fuoco continuo. A cottura terminata il forno doveva raffreddare lentamente (da 5 a 7 giorni a seconda della stagione) altrimenti i mattoni si rovinavano con formazione di cavità interne e di polvere. Per ottenere prodotti di buona qualità era indispensabile evitare l’entrata dell’aria fredda dalle pareti laterali, per evitare ciò anche la porta del forno doveva rimanere ben chiusa. La proporzione di mattoni buoni in una cottura ben fatta oscillava da 98 a 99%. Lo scaricamento durava da 1½ a 2 giorni.
A partire dal 1° gennaio 1930 la Solvay dette in locazione per uso abitazione, ad Amadori Vincenzo (operaio), l’appartamento annesso alla fornace. Poi, per dieci lunghi anni i documenti tacciono fino al gennaio del 1941, quando abbiamo notizia che al 31 dicembre 1940 si concludeva la gestione di Paolo Lamberti alla fornace del Fine e che, nell’anno successivo, l’impianto non avrebbe lavorato a causa della guerra. In seguito a tale evento nel 1942 la Solvay concedeva temporaneamente una parte dei locali annessi alla fornace per l’accantonamento truppa del 47° Reggimento Artiglieria Divisione “Bari”. Dal 1947 al 1950 l’attività edilizia per la costruzione di nuove case “Solvay” riprendeva a ritmo sostenuto ed è probabile che in quel periodo, rimessa in funzione la fornace. Nel 1965 furono presi contatti con una fabbrica specializzata per rimodernare l’impianto di lavorazione dell’argilla, ma la fornace, già da tempo abbandonata, non fu più rimessa in funzione e ne venne decisa la demolizione.
Da "Antiche manifatture del territorio livornese" di R. Branchetti, M.Taddei, L.Cauli, R.Galoppini, scaricabile dal sito)               La tutela alle madri lavoratrici viene introdotta nel 1927
Benché le aziende avessero l’obbligo di sottoporre i dipendenti a periodiche visite mediche non si faceva abbastanza per tutelarne la salute, l’integrità fisica e la sicurezza sul posto di lavoro, esattamente come in URSS e nei paesi totalitari poco sviluppati dove vigeva un sistema di lavoro inumano e arcaico. Non si poteva andare troppo spesso al gabinetto senza destare sospetti e passare per scansafatiche. Nelle ritirate c’erano cartelli che dicevano: «Non più di cinque minuti a bisogno». Gli ambienti di lavoro erano pericolosi e malsani. I macchinari vecchi e poco sicuri. L’officina tipica era una selva di pulegge al soffitto collegate da cinghie di trasmissione ai macchinari in basso, prive di protezioni e che spesso si spezzavano colpendo il personale presente. Gli infortuni anche gravi erano all'ordine del giorno ed erano considerati un rischio da correre. Il concetto fascista di «civiltà» del lavoro restava primordiale. Ma per altri versi la legge era all’avanguardia, in ossequio al programma nazionale di aumento delle nascite. Alle madri lavoratrici veniva garantito il diritto alla conservazione del posto di lavoro; ed erano previsti permessi per l’allattamento della prole e l’obbligo per le aziende con più di 500 operaie di adibire un locale a camera per l’allattamento durante il lavoro. Tutte le lavoratrici dipendenti (escluse quelle che percepivano un salario superiore alle 800 lire mensili) erano assicurate per «l’evento maternità» presso l’Istituto Nazionale Fascista di Previdenza Sociale (da cui è derivato l’attuale INPS epurato soltanto della parola «fascista»), che versava alla madre un assegno di 300 lire: la metà pagata entro la prima settimana di puerperio e l’altra metà al termine del periodo di riposo. Questa indennità veniva corrisposta per compensare la perdita economica che la lavoratrice subiva, visto che il datore di lavoro era tenuto a pagare l’intero salario per il primo mese di permesso di gravidanza, mentre per i due mesi successivi previsti dalla legge la retribuzione veniva dimezzata.
In caso di aborto naturale (l’aborto procurato era considerato un reato grave) la lavoratrice riceveva dall’INFPS un contributo di 100 lire. Le donne e i fanciulli venivano esonerati da mansioni particolarmente gravose e pericolose, e se i compiti risultavano faticosi e insalubri avevano diritto a una riduzione dell’orario di lavoro rispetto a quello normale e a periodi di riposo intermedio; fermo restando che l’assunzione dei minori era subordinata all’adempimento degli obblighi scolastici. Così fu più difficile assumere «in nero» e impiegare bambini in età scolare. Solo negli opifici del settore tessile laniero e serico nel 1922 lavoravano 95.000 bambini dai 6 agli 11 anni. Nel biellese su 80.000 addetti, 40.000 donne sottopagate e 20.000 bambini, di cui 3000 tra i 6 e 7 anni, lavoravano 12 ore al giorno. Con la nuova legislazione del lavoro, e l’ONMI che vigilava sulla corretta applicazione delle norme, la piaga del lavoro minorile venne in gran parte eliminata e le famiglie costrette a mandare i figli a scuola.
(Sintesi da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini)

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