Comune di Rosignano Marittimo
la viabilità antica

la viabilità antica/2

    

             la tecnica stradale  

La gestione amministrativa e tecnica delle strade del Granducato fu inizialmente prerogativa di due dei dieci Capitani di parte Guelfa denominati Ufficiali dei fiumi, strade e ponti. Con la legge dell'unione dei magistrati ad essi competeva più prontamente che per il passato, rassettare le strade.. (1549). Questo nuovo ufficio era preposto ai lavori pubblici del Contado e Distretto granducale, con l’eccezione del territorio Pisano, ove operava l’Offizio dei Fossi di Pisa.
Tre anni dopo, il primo maggio 1551, con delibera Ducale, Cosimo I° regolamentava questo nuovo Ufficio attribuendogli l’incarico di provvedere al mantenimento, fra l'altro, delle fosse principali e maestre, dei ponti sopra dette fosse e di quelli già mantenuti per consuetudine dalle Comunità locali.
Seguivano le disposizioni per le spese per rassettare et mantenere le strade a carico delle rispettive comunità e tra le strade elencate troviamo la strada di marina da Livorno alla Cecina, fino a Calafuria e la strada di Calafuria.
Nel 1578 fu emanato un bando che conteneva le norme per la manutenzione delle strade o in cui si tornava a imporre ai lavoratori locali lo svuotamento periodico delle fosse. Il bando fu rinnovato nel 1680 , ma certo è, che questa manutenzione non doveva sortire un grande effetto se, nel 1695, il Padre Colombino e alcuni suoi compagni di viaggio, dopo un fortunoso sbarco a Piombino, percorsero la strada costiera fino a Montenero, arrivandovi stremati, poiché fu tale e tanto lo stento l'andar lungo la marina, perché non sapevano la strada e che in quella…così profonda vi consumarono tutte le scarpe, calze e anco meno, che tutto l’abito, con tal stanchezza alle ginocchia che già dubitavano non poter finire quel viaggio ...
A scadenze regolari si ripetevano gli ordini e bandi, che ingiungevano, come quello del 1714, pena, severe sanzioni, a tutti, sia padroni che fittuari, contadini e ortolani, di provvedere nell'arco di tempo fra il l° agosto e il 31 ottobre, alla pulizia e riassetto delle fosse, scoli, sgrondi ecc. lungo le strade maestre e vicinali; come al divieto tassativo di scaricare in dette strade, terra, letame, pietrami e altro che ne ostruissero il passo o la guastassero facendo fanga….o porre in opera strutture, scavi, pozzi, piante, che ne restringessero o occupassero la carreggiata.
Quando nel 1737 si insediò Francesco I° di Lorena, nel granducato Toscano erano ancora vigenti le Istruzioni ed obblighi degli Ingegneri di Ponti e Strade emanate il 28 agosto 1718 sotto Cosimo III dei Medici. Gli Ingegneri di nomina granducale, dipendevano ancora dalla Congregazione dei deputati sopra le strade e ponti della Magistratura di Parte Guelfa. Dovremo attendere fino al 1767 per avere nuove disposizioni con L'istruzione per i cancellieri Comunitativi all'oggetto che possano ben regolarsi nell’esecuzione di lavori di strade. Significativo il fatto che venivano destinati ai lavori sulle strade tutti quei soggetti miserabili, gli estranei, i questuanti e gli sfaccendati che vivevano nel vicariato, cui competeva la strada e che i contadini erano comandati solo quando non richiesti dai lavori dei campi.
La figura del deputato di strade, prima chiamato agente, acquistò importanza in relazione al fatto che da lui dipendeva la verifica dei lavori appaltati dalle comunità e realizzati secondo le linee operative indicate nella relazione dell’ingegnere competente. Nel 1768 con motuproprio, il granduca Pietro Leopoldo ribadendo la validità del regolamento emanato nel 1718 , dava disposizione affinché il Senator Soprassindaco de’ nove fosse equiparato nelle funzioni al Senator Provveditore dell’uffizio della parte e che ambedue dovessero sospendere quei Cancellieri delle Comunità che avessero mancato nelle visite alle strade e quegli ingegneri che avessero avvallato lavori difettosi con l’aggravio del risarcimento del danno provocato al pubblico. Anche i muratori che frodavano nei rifacimenti delle vie pubbliche e ponti erano soggetti ad indennizzare e rifare a loro spese l’opere difettose.
Arriviamo così, alla riforma Comunitativa del 1774 che distinse le strade in due classi fondamentali: le Regie e le Comunitative, oltre alle Vicinali e le private di uso pubblico. Regie erano quelle costruite e mantenute a spese dello stato, inizialmente soprattutto quelle classificate postali, sulle quali da tempo l’amministrazione assicurava il cambio dei cavalli e un servizio di ristoro per i viaggiatori, in luoghi prestabiliti, le Stazioni di posta.
Le comunitative competevano ai comuni ed erano le strade, piazze ponti e loro annessi esistenti entro le terre situate nel territorio della comunità, e quelle che da detti luoghi conducevano ai confini con altre comunità o che andavano da una chiesa all’altra. Altra novità era l’abolizione delle comandate dei lavoratori locali e degli abitanti del territorio e la ridistribuzione dei carichi di spesa sui proprietari terrieri confinanti con le strade, perché contribuissero in proporzione ai lavori eseguiti a spese delle casse comunitative. Due anni dopo, con una nuova legge, venivano definitivamente rilasciate in accollo perpetuo alle rispettive comunità nel territorio nelle quali sono situate, addossando a ciascuna di esse il mantenimento di quel tratto, o tratti di Strade Regie che si comprendono dentro la sua estensione. Era data facoltà ai magistrati comunitativi di deputare una persona di fiducia a trattare e convenire della somma, e quantità delle prestazioni annuali da pagarsi alla sua Comunità dalla Cassa dell’Entrata dell’Imposizione Universale per le strade. I Comuni avrebbero potuto subappaltare il lavoro di manutenzione delle strade a privati, traendone, se possibile, un profitto; fermo restando la loro responsabilità davanti all’Amm.ne dello stato, sull’eventuale cattivo stato delle strade dovuto a negligenza o dolo degli appaltatori. Nell’elenco allegato al documento, fra le Strade Regie soggette alla nuova normativa vi è la Strada lungo marina di Livorno per ogni parte lungo la spiaggia. La parentesi dell'occupazione francese fu ricca di novità normative. Il 24 maggio 1804 venne emanata la Legge sulle strade che venivano classificate in: Nazionali, Dipartimentali, Comunali e Private. L'anno dopo le Dipartimentali furono inglobate nelle nazionali. Tale regolamento fu applicato nel Regno d’Italia fino al 1860. La strada del Litorale venne contraddistinta con i numeri 193, 194 e 195 a seconda dei tratti e classificata prima Regia, poi dal 1809 Imperiale, per tornare Regia nel 1814. Nel l812, per renderla carrozzabile erano stati previsti 800.000 franchi di spesa, ma i lavori non furono eseguiti se non in minima parte ed in realtà nel tratto Livorno- Cecina fu quasi sempre transitabile solo con i cavalli essendo il traffico dei carri dirottato sulla Pisa - Cecina via Collesalvetti. I Lorena nel 1825 istituirono, sul modello francese un corpo tecnico altamente specializzato per la costruzione e il mantenimento delle strade, gli Ingegneri di ponti e strade, dividendo la Toscana in cinque compartimenti secondo le provincie di Firenze, Pisa, Siena, Arezzo e Grosseto, dipendenti dalla Direzione generale di Acque e Strade cui facevano capo i vari Ingegneri del Circondario.
Le strade furono classificate in: Regie postali, Regie non postali, Provinciali e Comunitative Carreggiabili. La via del Littorale che da Livorno conduce nella comunità di Campiglia passando per i fortini fu classificata Regia. Nel 1840 risultava declassata a Provinciale a causa delle sue pessime condizioni, ma i lavori eseguiti nello stesso anno portarono la carreggiata a 12 braccia (circa 7 metri) di larghezza. A seguito i questi lavori di consolidamento e rettifica del percorso, nel 1844 il Granduca la elevò di nuovo al rango "Regia" strada nel tratto da Livorno a Vada, e con esso il piccolo tronco che da Vada collegava alla via Regia Emilia.

La principale e più antica arteria romana del territorio era la Via Aurelia, costruita a partire dal 241 a.C., il cui percorso costiero collegava Vada con gli altri porti. Successivamente (fra il 115 e il 109 a.C.) la Via Aemilia Scauri ne prolungò e ne razionalizzò il tracciato. Il suo percorso, documentato da pietre miliari e da fonti itinerarie, è più interno di quello dell'Aurelia: a Nord di Vada essa proseguiva per Pisae con un tracciato in parte coincidente con l'attuale SS 206. (Da: "Guida al Museo Archeologico di Rosignano Marittimo" di E.Regoli e N.Terrenato)

Una delle componenti fondamentali del paesaggio rurale è rappresentata dalle strade, nelle loro molteplici varietà. Le più importanti erano carrabili, le altre soltanto somabili, comunque fossero mulattiere, sentieri, viottole di campagna, "strade regie" e "comunitative", contribuivano a tessere una rete viaria più o meno fitta a seconda del grado di popolamento delle varie zone.  Molti di questi percorsi vantano origini medievali e, in alcuni casi, addirittura più antiche: resti di acciottolato, delimitato da un cordone di pietre o sostenuto da muretti a retta, denotano la vetustà del tracciato. Segno tangibile di una lontana origine, è anche la presenza del verde ornamentale (soprattutto filari di cipressi), o segnaletico (piante isolate alle biforcazioni), così come le testimonianze di pietà religiosa (tabernacoli e croci) che s'incontrano lungo il percorso. (Da: "I segni storici del paesaggio rurale" di Roberto Branchetti)

Dagli estimi del XVI secolo, si rileva che la principale via che serve questo territorio è la Strada Maremmana, chiamata anche Pisana (Oggi S.S. 206, Pisana-livornese). Il suo percorso era più o meno quello attuale, corrispondente al tracciato della via Emilia. Dal borgo di Rosignano si dipartiva una strada, la via "publica", importante per la zona, che andava verso Vada. Sul suo itinerario, vicino a Rosignano, vi era lo Spedale di Sant'Antonio che dava assistenza ai bisognosi e ai pellegrini; la strada attraversava il torrente Fine al Ponte di Vada, nella zona detta Prata a Isola o Sabbine, vicinissima all'attuale guado, e da lì percorreva la proprietà dell'Arcivescovado di Pisa. Alla fine del 1700 questa strada, detta via di Sant'Antonio, risultava essere la più importante e rappresentativa del comprensorio comunitativo di Rosignano: ne attraversava l'intero territorio, ed era la via più grande come dimensione in carreggiata, rivestiva inoltre un ruolo di rilievo anche sotto il profilo economico, collegando l'intero circondario al porto di Vada. Infatti la via Maremmana, proveniente da Pisa, nel tratto relativo alla Comunità di Rosignano a sud dell'osteria dell'Acquabona, affrontando il poggio del Malandrone, diventava una strada secondaria, disagevole, poco frequentata, e per questo adatta al brigantaggio, per cui il traffico dall'incrocio dell'Acquabona, si dirottava verso il Borgo di Rosignano, sia per scambi commerciali, sia per una sicurezza personale e delle merci. Dopo il paese, il passaggio continuava verso sud immettendosi sulla via di Sant'Antonio. Questa via, giunta in prossimità del fiume Fine, presso l'osteria e mulino del Riposo, si diramava in due tronchi, uno diretto verso il porto di Vada mentre l'altro, attraversata la "Tenuta" vescovile, si collegava di nuovo con la via Maremmana. Da: "Una comunità della Toscana Lorenese: ROSIGNANO (1765-1808) Popolazione, Insediamento ed Ambiente" (1989) di Stefano Rossi e P.L.Ferri.

Il rinnovamento della rete stradale realizzato all'inizio dell'800 da un impulso vigoroso alla rinascita dell'area che da qui comprende anche la Maremma. Nel 1843 il "Giornale Agrario" scrive: "Il benefizio che hanno recato alla Maremma le strade rotabili è immenso. Era questo un paese affatto segregato dal resto del Granducato. Posti in agevole comunicazione tra loro i diversi punti della Maremma, e questi con le altre parti della Toscana, immediatamente si sono stabilite nuove relazioni di traffico... " La nuova viabilità produce cambiamenti straordinari nelle abitudini delle persone, soprattutto della povera gente che deve raggiungere la Maremma per le grandi "lavorie" d'estate e d'autunno, poveri lavoranti avventizi delle montagne appenniniche. Essi, lasciata "l'antica, renosa, cupa e solitaria via Emilia per una via nuova, comoda, aprica e frequente, dalla quale se ne diramano altre più o meno buone e piacevoli che mettono con essa in comunicazione i vari paesi e possessi, incominciarono a servirsi dei barrocci sopra i quali viaggiano più economicamente di quello che farebbero andando a piedi... "
Il breve brano che segue da la misura di quanto grande fosse la miseria umana e morale di chi era costretto a percorrere queste strade cercando un po' di lavoro per sopravvivere:

"Accadeva che i montagnoli dopo aver passato l'invernata lavorando in Maremma, ritornando oppressi dalle fatiche, nella lunghezza del viaggio e affannati per il calore intempestivo, riposandosi o dormendo sotto un albero... erano sopraggiunti da ardentissima febbre, che li spingeva spesso, trovandosi senza soccorso, al sepolcro. E quando non accadeva tanto disastro, erano forzati di spendere alle osterie più di quello che oggi pagano per farsi trasportare sui barrocci, impiegando nel viaggio la quarta parte del tempo che vi impiegavano allora. Ne queste fermate erano comode per loro, essendo spesso ricevuti con pessime maniere, fino al punto di ricevere improperi, dei quali io stesso sono stato testimone, sentendoli chiamare "indiscreti ed esigenti", da un oste, che usava il suo vocabolario, perché essendo quattro non si contentavano di due sole forchette per mangiare".
Le migliorate comunicazioni promuovono nuove iniziative: i paesi brulicano di vetturali e i trasporti diminuiscono grandemente di prezzo; sulle nuove strade vengono stabilite regolari comunicazioni, prima ad opera del governo, poi su iniziativa privata, quando diventa evidente il vantaggio economico.
Da: "Quaderni Vadesi" n° 5 di Carla Menghini Facchini

Le nostre strade comunali del passato

Strada delle Serre in loc. Monte Pelato Via di Montenero (Nibbiaia) - Nel plantario del 1795, la strada, l'unica che scendeva da Nibbiaia verso il Chioma, era denominata: "Strada che da Nibbiaia conduce a Livorno"; trent'anni più tardi compariva nelle mappe del Catasto Toscano con il nome di: "Strada che va a Montenero" ed infine, nella cartografia catastale del 1939, veniva riportata come: "Via delle Corazze" (R. Branchetti, in "La Valle del Chioma", Vol. 1, 1998, p. 21).  
Strada che portava alle miniere di magnesite di Castiglioncello    
Strada che da Pel di Lupo va alla Tagliola loc. Serragrande
Strada lastricata che dal Gabbro
andava alla Fonte di Ricaldo
Strada Comunale di Nibbiaia
Strada ai Mandrioli (Gabbro) Via  dei Cavalleggeri (Nibbiaia)
Via del Dorciarino (Nibbiaia) Via della Fonte (Nibbiaia)
Via di Poggio d'Arco (Gabbro) Strada che da Castelnuovo (Piazzetta del Magazzino)
conduceva al Gabbro
LA MANUTENZIONE - Lo stato delle strade segnava le stagioni meglio del Sesto Caio Baccelli. Quando erano ricoperte da una coltre di polvere bianca e fine, era estate; quando da uno strato di grossa tagliente ghiaia, era autunno; quando erano tutta una successione di poggi e buche, inverno; finalmente, quando era una grigia strada quasi normale, primavera. Alla fine di agosto, quando l'uva cominciava a rosseggiare, i barrocci depositavano sul margine destro, a intervalli regolari, tanti mucchi di grosse pietre tondeggianti, raccolte sul greto del Cecina, che diventavano per i ragazzi altrettante montagne da scalare e da smantellare. Poi veniva lo spaccapietre. Seduto su una balla ripiegata, dall'alba al tramonto, pietra su pietra, le frantumava tutte col suo piccolo martello, riparandosi dal sole e dalla pioggia con un baldacchino di frasche issate su tre paletti, con le dita spesso sanguinanti o fasciate, proprio come lo descrive nella sua mirabile pagina, l'insuperabile Fucini (vedi fondo pagina). Quando la pioggia autunnale trivellava la strada di buche, lo stradino le riempiva di ghiaia, ed allora transitarvi era un problema per tutti. Barrocci e carri vi caracollavano sopra con rumore assordante; ciclisti e pedoni si ritiravano sul bordo a rischio di cadere dalle scarpate o nelle fossette. Le ruote, in principio, vi scavavano solchi profondi, poi, piano piano, ruote, zoccoli e intemperie trituravano la ghiaia fino a trasformarla in polvere e fango. Il solitario lavoro dello spaccapietre ha spesso colpito la fantasia di pittori e scrittori che ne hanno messo in rilievo su tela e su carta la tragica singolare drammaticità, come si più vedere qui sotto:
Giovanni Fattori - Viale con buoi e spaccapietre 1875-80 Giovanni Fattori - Lo spaccasassi

Giovanni Fattori - Lo spaccapietre 1869

Gustave Courbet - Gli spaccapietre 1849

Alberto Sughi - Gli spaccapietre 1951

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"LO SPACCAPIETRE" (da: Veglie di Neri di Renato Fucini)

Quando il sole piomba infocato sulle groppe stridenti delle cicale, e il ramarro, celere come l'ombra d'una rondine, attraversa a coda ritta la via; o nel tempo che la bufera arriccia e spolvera all'aria l'acqua delle grondaie ficcandoti nell'ossa il freddo e la noia, lo spaccapietre è al suo posto. Un mazzo di frasche legate a ventaglio in cima d'un palo lo difende dal sole nell'estate; un povero ombrello rizzato fra due pietre e piegato dalla parte del vento, lo ripara dalla pioggia nell'inverno.
Il barrocciaio che la mattina passa scacciando con una frasca i tafani di sotto alla pancia del mulo trafelato, gli dà il buon giorno; il contadino, tornando la sera fradicio e intirizzito dai campi, gli augura la buona notte.
E all'ombra di quelle frasche o sotto il riparo di quell'ombrello, seduto sopra una pietra bassa e quadrata, consuma le sue lunghe giornate, finché la massa di macigni che la mattina stava alla sua sinistra non è passata all'altra parte, ridotta dal suo pesante martello in minuti frantumi di breccia acuta e tagliente.
Allora egli è contento, perché ha guadagnato gli ottanta centesimi che gli paga puntualmente l'accollatario del mantenimento della via. Ma non sempre gli va così. Non perché l'accollatario, che è un vero galantuomo, sia capace di defraudarlo; ma perché molte sono le cause che possono assottigliargli il guadagno o allontanarlo affatto dal lavoro. Di frequente la pietra che ha da spezzare è troppo forte, e il lavoro non gli comparisce; qualche volta gli si guasta il martello, e perde tempo a riadattarlo; non di rado nell'inverno il maltempo infuria così impetuoso che lo scaccia dal lavoro; spesso, quando il sole d'agosto è troppo rovente, è costretto a cercare d'un albero e quivi all'ombra riposarsi, perché sente che le forze gli mancano; qualche altra volta, col braccio tremante per la stanchezza, e questo accade più spesso, cala il martello in falso e si percuote sul dito, ammaccandoselo sempre dolorosamente, non di rado fino al sangue. E in quel caso gli tocca a fasciarsi o a correre alla più vicina fontana, se pure non deve abbandonare il lavoro, perché lo spasimo non gli permette di continuare. E i cinquanta e gli ottanta centesimi allora non vengono, e la fame si ferma alla sua casa e lo veglia e l'assiste e non l'abbandona, finché non l'ha ricondotto estenuato e pallido presso il monte di pietre che da otto giorni l'aspetta lungo la via. E quella sera mangerà; mangerà poco, perché poco potrà lavorare; ma l'accollatario, che per fortuna è un vero galantuomo, gli misurerà puntualmente il lavoro fatto, e puntualmente gli darà i suoi venti o trenta centesimi trascurando i rotti in più della misura, perché lui a queste piccolezze non ci bada; ha trattato sempre bene chi lavora, e se ne vanta.
Io ne conosco uno di questi splendidi esemplari di carne da lavoro. Ah! ma questo che conosco io è stato sempre un signore, il Creso degli spaccapietre, perché fino a sessant'anni sonati, stomaco di cammello e muscoli di leone, ha guadagnato sempre il massimo che può fruttare il suo lavoro, e la polenta gialla o il pane bigio non sono mai spariti altro che per eccezione dalla sua tavola.
E i suoi colleghi lo rammentano con ammirazione, e raccontano ai loro amici attoniti come tutto l'inverno del '57 fu capace di spezzare due metri cubi arditi di pietra ogni giorno che Dio metteva in terra, senza mai fumare, senza bere un dito di vino e senza ammalarsi.
Ma le sue mani paiono due pezzi informi di carne callosa, il suo viso, screpolato piuttosto che solcato da rughe, pare un pezzo di pane da cani, e i suoi occhi, dopo tanti anni di sole, di polvere e d'umidità, sono contornati di rosso e gli lacrimano di continuo nelle occhiaie infiammate, che la notte gli bruciano e non gli dànno riposo. Ha le gambe torte e rigide dal lungo starsi a sedere, la schiena fortemente curvata, il corpo intero di mummia, lo spirito consumato dai dolori.
Se gli domandi delle sue sventure, egli ti agghiaccia col racconto freddo e conciso che, tra un colpo e l'altro del suo martello, te ne fa come di cose che debbano necessariamente accadere.
La sua figliola maritata partorì alla macchia dove era andata a far legna, e fu trovata morta lei e la creatura; il genero, che pareva tanto un buon giovane, scappò con una donnaccia e finì per le prigioni dopo avergli lasciato un nipotino che era la sua consolazione. Ma anche quello il Signore lo volle per sé, perché si vede che non lo credeva degno di tanta fortuna. Quando parla della figliola e del genero, non dà segni di commozione; ma se rammenta il su' povero Gigino posa il martello, si prende la testa fra le mani e, dondolandola come fa l'orso nella gabbia, racconta la sua fine pietosa.
Aveva già cominciato a menarlo con sé a spezzare, perché era un ragazzetto che per la fatica prometteva dimolto, quando un giorno, povero Gigino! non potendo più reggere dalla sete che lo tormentava dopo aver mangiato una salacca senza lavare, entrò in un campo e s'arrampicò sopra un ciliegio. Sopraggiunse il contadino gridando da lontano; il bambino per scender presto, cadde, si fece male a una gamba, non poté fuggire e fu mezzo massacrato dal contadino che lo raggiunse. Parte per lo spavento, parte per le percosse, dopo quindici giorni gli morì di convulsioni, che tutti non fecero altro che dire «Peccato!», perché delle creature belle a quella maniera non era tanto facile vederne.
Finito il racconto, rimane un momento fermo a pensare; poi ripiglia il martello e continua il suo lavoro.
La sua donna è cieca da un occhio, e di quella disgrazia la colpa l'ha tutta lui, perché, se ci avesse badato, non sarebbe accaduta. Quando le gambe la reggevano, la mattina andava a chiedere l'elemosina, e, se aveva fatto qualche tozzo di pane, verso il mezzogiorno glielo portava dove era a spezzare e si fermava lì a tenergli un po' di compagnia; e qualche volta, in tempo che lui mangiava, si metteva lei a spezzare, tanto per non perder lavoro. Una mattinaccia, in tempo che la su' donna svoltava la pezzòla del pane, passò un signore in calesse che buttò via un mozzicone di sigaro acceso, il quale andò a cascare vicino al monte de' sassi. La donna si chinò per raccattarlo e porgerlo al marito, e in quel tempo una scheggia d'alberese la colpì nell'occhio e l'accecò senza rimedio. Da quella mattina non è stata più lei: gli dole sempre il capo, non si regge più ritta dalla debolezza e non sa come curarsi, perché il dottore non gli ha ordinato altro che carne e vino generoso. E ora passa le sue giornate sull'uscio, seduta a chiedere la carità ai viandanti; ma da che hanno fatto la strada ferrata non passa quasi più nessuno, e spesso, dopo essersi accostata, mezza cieca, a chieder l'elemosina a chi le viene incontro per chiederla a lei, vede andar sotto il sole senza aver fatto né un centesimo né un boccone di pane. Allora, s'accuccia per abitudine accanto al fuoco spento, dove, aspettando il marito e dicendo la corona, s'addormenta. Un giorno che, meno brusco del solito, mi parlava delle sue miserie, dei suoi bisogni e delle sue privazioni, gli domandai quasi scherzando: «Dimmi: se tu potessi in questo momento ottenere tutto quello che ti paresse, che desidereresti?» «Una fetta di pane bianco per darlo inzuppato alla mi' vecchia che non ha più denti!» Ma quando quest'uomo s'ammalerà, il medico, andando a suo comodo dopo la terza chiamata, lo troverà agonizzante; il prete invitato per carità a spicciarsi, vorrà finire il suo desinare e lo troverà morto; il becchino, guardandogli i piedi scalzi e il camicione topposo, gli reciterà la breve orazione: «Accidenti a chi ti ci ha portato!».
Il volume "Veglie di Neri" è scaricabile dal sito alla sezione Scaricolibri
"LO SPACCAPIETRE" (da: 'Un ragazzo in toscana negli anni quaranta' di Piero Santi)
Ho accennato prima a questo mestiere e ritengo sia opportuno specificare meglio in cosa consisteva. Le strade bianche, quelle non asfaltate, erano la maggioranza nell’Italia centrale. Fino agli anni Cinquanta queste strade venivano mantenute con ghiaia derivata da pietra di fiume ossia ciotoli rotondeggianti di arenaria rotti a mano. Una figura che è rimasta molto presente nei ricordi della mia generazione è quella degli spaccapietre. Erano degli uomini di mezza età, per quanto ricordo, assai loquaci e integrati nel tessuto del contado. Ecco come si svolgeva il loro lavoro. Un barroccio, trainato ovviamente da un cavallo, scaricava dei cumuli di pietre di fiume di circa mezzo metro cubo ognuno sulla banchina della strada, a distanza di una cinquantina di metri l’uno dall’altro. Un uomo si sedeva su una balla riempita di paglia, messa a cavallo della pietra più comoda, così seduto prendeva in mano un sasso alla volta e con un martello speciale, adatto all’uso a cui era destinato, riduceva quelle pietre in piccoli pezzi di forma irregolare, ma di 20-30 grammi.In una giornata di lavoro ingrato, sotto il sole, lo spaccapietre, impolverato dalle rare auto che passavano, sminuzzava un po’ più di mezzo metro cubo di pietre. Le sue mani erano callose, rigide, ruvide sino all’inverosimile. Se gli davamo la mano era come stringere una grattugia di ferro (come quelle con le quali normalmente si grattugia il formaggio). L’uomo conosceva tutti: i barrocciai, i contadini che passavano con i loro carri trainati da buoi, quelli che andavano a piedi al paese o al mercato. Per molti “pendolari” che passavano due volte al giorno per andare al lavoro e ritornare, lo spaccapietre era un punto di riferimento, anche un confidente e perfino un apportatore di tranquillità contro persone non rassicuranti che saltuariamente transitavano. “Attenzione donne, chiudete gli usci, badate i bimbi! Son passati gli zingari; lo sapete che quelli portano via anche i bimbi... !“ Forse era un allarme ingiusto quello dei bimbi, ma certamente serviva come avviso per difendersi dai piccoli furti. Quando non c’erano passanti il buon omo, tra una martellata e l’altra, cantava. Per lo più erano stornelli il cui contenuto era spesso una rievocazione di fatti lontani. Finito di spaccare il mucchio, con il badile raccoglieva questi detriti divenuti ghiaia e li ammucchiava sì da formare una specie di tronco di piramide. Lo stradino dipendente dall’A.N.A.S.  dalla Provincia o dal Comune, responsabile del tratto di strada, passava a misurare il volume del mucchio e, in base a questo, lo spaccapietre riscuoteva; forse ricavava una quindicina di lire al giorno, più di un bracciante agricolo che ne prendeva dodici. Per dare un ragguaglio dei valori, ricordo che un buon vino veniva venduto al minuto a circa cinque lire al litro, ma tre lire all’ingrosso. Il prezzo di un paio di buoi da tiro era di dieci-dodicimila lire. Evidentemente uno che guadagnava anche quindici lire al giorno, poteva fare “pochi salti”.

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