Rosignano Marittimo ieri

Cucina rurale della Fattoria Vestrini nel 1930 circa con il grande "focarile" a sinistra ed
il lampadario con il lume a petrolio
(Foto C. Vestrini)

                      L'arredamento ed i servizi di casa negli anni Trenta
L’arredamento della casa contadina era semplice e uguale per tutti: letti formati da assi di legno su cavalletti, con pagliericci di foglie di granoturco o materassi di piume e di lana grezza, credenze di buona e solida fattura artigiana, cassepanche, una madia per la farina e il pane, poche sedie impagliate, parecchie immagini di santi. Nelle famiglie operaie la stanza da pranzo si chiamava «salotto», il divano aveva la trina bianca alla spalliera, il letto era di legno lucido, con decorazioni d’ottone e la rete metallica, con un crocifisso o la Madonna col bambino inchiodato al capo del letto, un ramoscello d’ulivo benedetto la Domenica delle Palme per traverso, il comò o canterano con la grande sveglia a suoneria, lumi a petrolio o acetilene dalla combustione di carburo e acqua, quando la corrente elettrica non c’era, specchi appesi al muro. Eppoi foto di famiglia: il ritratto pittorico, destinato per i posteri è riservato ai ceti più abbienti. Quello fotografico è alla portata di tutti o quasi. Il telefono di casa pochi ce l’hanno, pochi lo usano, è in bachelite nera e in famiglia si applica al muro. A metà degli anni Trenta in Toscana gli abbonati alla Teti (la Telefonica tirrenica) erano qualche migliaio. Il servizio telefonico italiano era vantato come uno dei migliori del mondo, crediamoci. Nel 1931, l’88 per cento delle case italiane non aveva il «gabinetto di decenza», come si diceva nel linguaggio comune; raramente e solo in paese i servizi igienici in comune nel ballatoio o in cortile, e d’inverno, quando la temperatura si faceva rigida, era particolarmente disagevole fare la coda per aspettare il proprio turno. Era fortunato chi aveva in casa o sul terrazzo un bugigattolo adibito a gabinetto, che i vecchi toscani chiamavano pudicamente «licite», consistente in una buca alla turca e un secchio d’acqua
(Vedi). La carta igienica non aveva grande commercio; appesi a un gancio c’erano pezzi di giornale e quasi mai il lavandino per lavarsi le mani. Furono gli inglesi a introdurre nel continente il «water closet», sciacquone su vaso di maiolica, con l’uso dell’acqua corrente nel gabinetto. A Genova dove grazie al porto, arrivarono i primi, il vaso di ceramica veniva messo in cucina, ma con accanto un secchio di acqua dove mancava l'acquedotto. All’inizio in Italia non ebbe molta fortuna, anche perché fino a dopo la II Guerra Mondiale, poche case avevano l’acqua corrente. Quella necessaria alla famiglia bisognava ancora, come sempre era stato, attingerla al pozzo e alla fonte pubblica con le brocche di rame che le donne anziane vestite di nero portavano in equilibrio sulla testa, quindi un bene prezioso da usare con parsimonia estrema. In campagna era una necessità meno impellente, bastava scendere presto al mattino e scegliersi un luogo appartato: c’era l’uso di scavare "fosse biologiche" e metterci di traverso qualche tavola di legno. Anche nelle case dei benestanti le vasche da bagno erano una rarità, in lamiera porcellanata con quattro zampe costava 200-300 lire, il concetto dell’igiene era ancora molto relativo, il bagno si faceva la domenica nel migliore dei casi. Ci si lavava in fretta, con un grosso pezzo di sapone fatto in casa, non al mattino, ma la sera per sfruttare d’inverno il tepore della casa, stando in piedi nella tinozza zincata o di cotto, mai un bagno completo. Gli apparecchi da bagno, dapprima quasi tenuti nascosti come indecenti e di cattivo gusto, alla fine degli anni Trenta divennero essenziali per una migliore abitabilità e igiene della casa con la nuova definizione di «sanitari». Il bidet o «bidello», come veniva chiamato, lo possedevano in pochissimi e non le persone morigerate. Il bidet, inventato dai francesi e usato prevalentemente nei paesi cattolici, era quasi sconosciuto nel Nord Europa, e lo è tuttora in Gran Bretagna, dove l’abitudine del bagno completo al mattino rendeva secondo loro, inutile l’uso di quello strano oggetto per «abluzioni locali». La borghesia fascista lo tollerava come strumento adatto alle persone malate, come il «pappagallo» per chi non poteva alzarsi dal letto. Chi cedeva alla tentazione, lo faceva quasi di soppiatto e vergognandosene. Per i benpensanti era un’offesa al pudore e le signore, e in particolar modo le fanciulle innocenti, avrebbero fatto bene a non servirsene. Le parti intime del corpo si continuavano a chiamare le «vergogne», e non bisognava esibirle in modo inverecondo a cavallo di quell’oggetto ripugnante. La casa borghese era sicuramente più grande e confortevole, con molti locali, saloni destinati ai ricevimenti e alle feste, mobili d’epoca, soprammobili e suppellettili di pregio, quadri d’autore alle pareti, ma anche i signori d’inverno erano costretti a passare parte della loro giornata nelle uniche stanze riscaldate dal camino, mentre il resto della casa era una ghiacciaia. Si gelava anche nel gabinetto, che era sempre esposto nei punti più periferici e freddi della casa; ma almeno i signori avevano il privilegio della privacy sconosciuta nelle famiglie povere che vivevano in assoluta promiscuità. Nelle notti d’inverno si andava a letto con lo scaldino. Il più comune era in terracotta o rame, col manico a ponte, di media grandezza, com’è descritto nel vocabolario dell’uso toscano di Pietro Fanfani del 1865. Lo scaldino conteneva la brace accesa, coperta di cenere perché non si consumasse troppo in fretta e non bruciasse le lenzuola, e lo si agganciava dentro un’intelaiatura di legno a forma ovale o circolare collocata sotto le coperte. Lo si metteva nel letto dei vecchi e dei più piccoli quando il clima era particolarmente rigido e le lenzuola sembravano di ghiaccio. Quello ovale, in Toscana, si chiamava «prete», forse infilandosi sotto le coperte aveva qualche riferimento, l’altro tondo «trabiccolo», e durante il giorno veniva usato per asciugare i panni.  Dal 1938 la luce elettrica aveva cominciato a diffondersi anche nelle campagne e c’era chi si meravigliava che i contadini mangiassero carne tutti i giorni e avessero la luce elettrica fin nelle stalle. L’apparecchio radio, per chi aveva la fortuna di possederlo, dominava come un altare di Vesta, un apparecchio enorme a mobiletto che la sera riuniva tutta la famiglia. La sua apparizione fu la più grande novità degli anni Venti. Il 2 marzo 1925 venne trasmessa in diretta la prima partita di calcio: l’incontro internazionale Italia-Ungheria. Il regime ne seppe sfruttarne tutte le potenzialità propagandistiche. Nelle grandi occasioni la parola dei Duce diffusa dall’altoparlante riecheggiava nelle piazze dei borghi e dei villaggi sperduti. Le prime cucine elettriche comparvero nel 1927. Per conservare i cibi deperibili si ricorreva alla ghiacciaina fatta in casa, una scatola di legno con l’interno foderato d’acciaio per mettervi i pezzi di ghiaccio venduto per strada dal ghiacciaiolo o al bar. Il burro si conservava in una bacinella con un filo di acqua corrente. Del resto non si facevano grandi scorte di generi alimentari; al ghiaccio pensavano i ragazzi che si affrettavano a portarlo a casa avvolto in un panno e strada facendo lo sgranocchiavano agli angoli. Se non c’era la ghiacciaina si metteva il ghiaccio in un catino pieno d’acqua per tenere in fresco il vino oppure si teneva il fiasco in un secchio lasciato appeso alla corda e immerso nell'acqua del pozzo. Nel 1940 la Radiomarelli, concessionaria esclusiva per l’Italia, le colonie e l’impero, vendeva il frigorifero FIAT 125 litri, di tipo sigillato, venduto come «il più grande successo dell’industria del freddo a domicilio», ma a lungo fu considerato un lusso, roba da signori. Ciò che seduceva di più la madre di famiglia era la cucina elettrica. «Pensate,» diceva la pubblicità «provvedere all’indispensabile pasto giornaliero senza sporcarsi le mani, senza il fastidio del fumo, del cattivo odore e, per giunta, con la massima celerità». Del resto la diffusione della cucina elettrica era dappertutto al primo stadio, nelle case operaie e contadine si userà ancora per lungo tempo la grande stufa, o focarile, con i fornelli a carbone. Nel pomeriggio, sbrigate le faccende, la massaia si metteva alla macchina per cucire e le bambine guardavano per imparare. In ogni casa c’era una Necchi o una Singer: verniciate di nero, con qualche decorazione floreale in oro, a pedale o manovella, costavano dalle 100 alle 150 lire; ma erano soldi spesi bene, perché con la macchina in casa si risparmiava parecchio e le bambine facevano pratica. Le giacche, lise e lucide ai gomiti, si rivoltavano almeno tre volte, ma per non fare la figura dei pitocchi bisognava stare attenti alle asole occhieggianti su entrambi i risvolti e al taschino che da sinistra passava a destra. Erano accorgimenti necessari per non farsi compatire. Nel 1935 la Necchi mise in commercio la prima macchina zig zag a manovella. Nel 1939 la Singer sfornò la prima macchina con motorino elettrico che sostituiva quella a pedale. Era solo l'inizio di una serie infinita di macchine domestiche che ci accompagna da oltre mezzo secolo. (Sintesi da: "Otto milioni di biciclette" di Romano Bracalini)
                           Come eravamo…Ricordi di una nonna

La vita di tutti i giorni quando ero bambina e poi ragazza, era molto semplice e piuttosto dura. Nelle case non c’era il riscaldamento e nell’inverno l’unica stanza riscaldata era la cucina con il camino o con una stufa economica ed ambedue venivano alimentate con la legna. La stufa aveva dei cerchi di ferro che si potevano levare per mettere sul fuoco la pentola o il tegame, a sinistra c’era una piccola vasca per avere a disposizione un po’ di acqua calda, attaccati al tubo c’erano dei ferri per  asciugare piccoli capi di biancheria. Chi non possedeva questo tipo di cucina aveva due cavità nel camino che contenevano i fornelli di ghisa per accendere il fuoco. Accendere il fuoco era un’impresa piuttosto noiosa. Nel fornello si mettevano prima dei fogli, poi la brace e si dava fuoco, quando la brace era accesa si aggiungeva il carbone e si sventagliava per una completa accensione. Qualche volta i tizzi del carbone non erano cotti bene e facevano un gran fumo. Sopra al camino c’erano la ventaglia, la paletta e le molle. Per accendere il fuoco le mani diventavano nere. Brace e carbone si compravano dal carbonaio. Attaccata in cucina c’era la moscaiola.
Il gabinetto era situato in una piccola stanza con una finestrina; rialzata dal terreno c’era una pietra di marmo con una buca e un tappo di legno. La carta igienica non esisteva, attaccati ad un chiodo o messi in una borsina c’erano dei fogli di giornale che macchiavano di stampa il sedere. Spesso nei condomini questi gabinetti erano per le scale e servivano per più famiglie. Da casa mia vedevo il dietro di alcune abitazioni del vicolo del Berti, qualche famiglia aveva fuori dalla finestra un grosso tubo di terracotta con un tappo; questo era il suo servizio igienico. I vecchi chiamavano “licite” il gabinetto. I dipendenti Solvay che abitavano nelle case della società, erano più fortunati, avevano i gabinetti alla turca. Ci si lavava nell’acquaio della cucina, a volte andavamo ai bagni pubblici. Non c’era l’acqua corrente in casa, bisognava rifornirsi alla fonte con mezzine di rame, secchi e brocche. Il bucato veniva fatto ai lavatoi comunali. Noi avevamo le pile nei fondi ed il bucato veniva fatto con acqua bollente e cenere. Il liquido che usciva si chiamava”ranno” e serviva anche per lavarsi i capelli che si asciugavano al sole. Spesso per pettinarsi si usava il pettine fitto. Mi viene in mente un altro ricordo: nell’inverno per scaldarci durante il giorno si usavano gli “scaldini” chiamati anche “caldani” con dentro brace accesa e cenere; per tenere caldi i piedi li mettevamo in terra vicino alle gambe, per scaldarci le mani, li tenevamo sulle ginocchia. La sera per trovare il letto caldo, mettevamo sotto le coperte il “trabiccolo” formato da assi di legno con un gancio in alto nel centro per attaccarci lo scaldino. Nonostante questi mezzi, pativamo molto freddo e ci venivano i geloni alle dita dei piedi e delle mani. Questi arrossamenti erano dolorosi.
Il “trabiccolo” era un fuso rettangolare e scaldava il letto a due piazze, il “prete” era più piccolo e a cupola e scaldava il lettino. Quando il bambino si ammalava, non si chiamava subito il dottore, si pensava che avesse l’indigestione e la sera gli veniva data una bella purga. La mattina doveva bere una tazza di brodo caldo per farla agire meglio. Ai miei tempi non sarebbe servita la ciclette, perché per andare a lavoro, alle scuole medie, al mare, al cinema si andava tutti a piedi o in bicicletta. La mattina presto e la sera alle 17, un lungo fiume di tute azzurre si snodava lungo le strade, erano gli operai della Solvay che tornavano ai loro paesi sulle colline, Rosignano M.mo, Castelnuovo, Gabbro, Nibbiaia. Gli operai fermavano il fondo dei pantaloni con i gancini dei panni, perché non andassero nei raggi della ruota o si sporcassero alla catena. Io tornavo a casa dalle mie girate, a quest’ora per viaggiare in compagnia. Gli uomini mettevano sul petto dentro la tuta, dei fogli di giornale per ripararsi dal freddo che penetrava dai vestiti. A quei tempi la bicicletta era un bene prezioso. Quando, oggi, vedo passare per le strade le donne con abiti con le punte, con la coda dietro o sui fianchi, ripenso con un sorriso a quando la mia mamma mi metteva ritta sul tavolo di cucina e con il metro di legno prendeva le misure per un orlo perfetto, non doveva pendere nemmeno di un centimetro. Io mi annoiavo a stare diritta e girare lentamente.

Andavamo a prendere il latte alla latteria con la nostra bottiglia o con il bollilatte. Le misure erano: un quartino, mezzo litro e il litro. Nei negozi di alimentari la spesa veniva incartata con carta gialla o con carta impermeabile, l’olio si vendeva sfuso e occorreva portare la bottiglia. Non esistevano i frigoriferi, il burro si conservava con l’acqua nella burriera, brodo, frutta, acqua per renderla fresca si conservava in un secchio appeso nel pozzo. Quando un secchio cadeva nel pozzo si cercava di riprenderlo con un rampino. Ricordo che al mio bar qualche donna veniva a chiedere i fondi del caffè per adoperarli per la colazione della mattina. Spesso a casa mia veniva Agatina, una donna che abitava in castello, a prendere vestiti usati. Gli orti venivano concimati con il liquame, preso con il mescino, dal pozzo nero (che igiene!)

Le piante erano concimate con la pollina e con lo sterco dei cavalli. Non usavamo gli insetticidi, si dava il “flitte” con una macchinetta e nelle cucine, al camino veniva appesa una lunga striscia arricciolata intrisa di colla; gli insetti si avvicinavano e ci rimanevano attaccati. Nelle botteghe di alimentari, ad una parete c’era un mobile con tanti cassetti con la parte esterna di vetro, dentro a questi contenitori erano in mostra le varie qualità di pasta. In terra c’erano molti sacchi che contenevano riso, zucchero, ceci e fagioli, tutto veniva preso con mestole e pesato sulla stadera in fogli di carta gialla. Quando ero giovane le donne non portavano i pantaloni, le gonne dovevano essere sotto il ginocchio, le scollature erano alte perché non si doveva vedere il seno. Non usavano le calzamaglie, si portavano i calzettoni che riparavano poco dal freddo. Le calze di nailon vennero sul mercato verso il 1950 e quando si smagliavano si portavano da Iris che le accomodava con un piccolo uncinetto elettrico.

Dopo il passaggio del fronte (1944), cappotti e giacche si facevano con le coperte dei soldati americani e le camicette venivano confezionate con la seta dei paracaduti, sempre americani.

Le merende dei nostri tempi erano: una fetta di pane bagnata nell’acqua e poi cosparsa di zucchero, oppure bagnata nel vino e poi sopra lo zucchero. Più saporita era la fetta strusciata con il pomodoro, sale e olio. A volte sulla fetta di pane veniva messo un po’ di olio e sale o marmellata o miele. A me piaceva prendere il cantuccio del pane, toglierci la mollica e nella buchetta metterci olio e sale; qualche volta lo faccio ancora e provo molto gusto come quando ero piccola.

Verso il 1955 una trasmissione televisiva “Lascia o raddoppia?” condotta da M. Bongiorno divenne un fenomeno nazionale. Non tutte le famiglie avevano il televisore, così tutti i giovedì (giorno del programma) andavamo dai vicini o al bar. In quel giorno i cinema erano deserti, perciò i gestori si attrezzarono e installarono nelle sale vari televisori e la gente prima vedeva “Lascia o raddoppia?” e poi il film. Questo programma era avvincente perché si basava sulla preparazione e sulla memoria dei concorrenti ed inoltre il premio finale era di 5 milioni, una cifra molto alta per quei tempi. Da: "Come eravamo..." di Anna Maria Raigi scaricabile dal sito.

Rosignano Marittimo - Ieri

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