Gli ospiti di Castiglioncello  Cronache


Da "La Stampa" del 25-02-1921 

La morte di Renato Fucini
 

Stamani nella sua villetta di Dianella è morto Renato Fucini. Entrato in agonia alle 4 è spirato allo 6,20. (Monterotondo Marittimo, 8 aprile 1843 – Empoli, 25 febbraio 1921). I medici da qualche giorno avevano sospeso i bollettini perché l'infermo era miglioralo, tanto da far credere che la catastrofe non fosse imminente. A loro giudizio, per il cancro alla bocca, il poeta poteva vivere, ancora. La morte è stata accelerata dall'uricemia. Anche durante la breve agonia, ha conservato la lucidità di mente. Egli non poteva quasi pronunciare le parole, ma riusciva a far capire cosa volesse. Ha chiesto del nipote Mario Fucini. Era cosi sicuro di morire che voleva che i medici si allontanassero e rifiutava recisamente l'ossigeno. Alle figlie Ida e Rita che gli chiedevano un bacio, Renato Fucini ha fatto un segno di assentimento pronunziando a stento: « Si». Egli lascia la consorte signora, Emma Roster, che da parecchi anni è inferma, le figlie Ida e Rita e vari nipoti, fra i quali Enzo, Maria e Norina. Era malato da circa quattro anni e non scriveva più. Ai suoi famigliari diceva: « Non scrivo più; se vorrete pubblicare, troverete i miei manoscritti e le disposizioni ad "essi relative ». E' stato aperto il suo testamento. Fucini lascia il patrimonio alle figlie con l'usufrutto alla consorte. Ha disposto qualche legato di beneficenza. Riguardo alla produzione letteraria inedita, ha lasciato alla vedova di disporne, distruggendo però ciò, che è cianfrusaglia. Relativamente alla religione pensava: in quanto alla insulsa questione di prete e non prete finché vivrò farò quello che parrà a ime. Dopo morto, lascio ai congiunti di fare quello che parrà a loro». La vedova e le figlie hanno disposto che la salma venga accompagnata dal sacerdote Luigi Culistri. "
                                                                                           Neri Tanfucio
Da Renato Fucini non si andava — per la prima volta — senza sorriso. Conoscere da vicino Neri Tanfucio, farlo parlare, stare ad udirlo... chissà che risate, che scorpacciata di buon umore! E vi ritrovavate dinanzi ad un uomo tutto serio, se non burbero, con quel suo cappellaccio sbertucciato sulla gran bella fronte carducciana, la pipetta di coccio da due soldi tra le labbra, e sulla mobile faccia, dagli occhi profondi, luminosissimi, un'aria di raccolta severità, come, in un velo tenue di melanconia. Ma la delusione più grande veniva dal fatto che Neri Tanfucio amava parlar poco e il suo parlare era sommesso e rapido. Anche coi più intimi - specie se si trattasse di sé, della sua vita, della sua arte — egli si serbava, pur nella spontanea arguzia, di una sobrietà che tradiva l'intimo raccoglimento di uno spirito austero. Tale — specialmente nei suoi ultimi anni: lo incontraste sulla spiaggia di Castiglioncello, tutto vestito di bianco, o in una libreria fiorentina — era quest'uomo, che, nello rime e nelle novelle, paesanamente, ma con un'arte somma che (per aspetti vari lo innalza tra il Manzoni ed il Verga), ha prodigato tesori di umorismo, ha iscritto pagine che fanno sbellicar dalle risa, «ha rovesciato ondate di sana e fresca comicità. Ma quest'uomo è pure un artista che, con arte ugualmente semplice, ha scritto pagine che fanno piangere e pagine in cui la stessa risata si spegne nel sospiro della melanconia e del dolore.
Renato Fucini nacque settantott'anni fa in Monterotondo Marittimo, presso Grosseto, da u medico condotto, un uomo semplice ma nobilissimo, all'antica, cioè gran cuore e grande carattere, ricco soltanto di austere virtù generose nell'umiltà di una vita povera, tutta lavoro e famiglia. Il piccolo Renato ebbe nel padre il suo maestro migliore, l'educatore che non fallisce; e quando questo figliuolo fu adulto di anni e di gloria la sua penna mirabile fece rivivere l'amata patema figura in una novella, che resta tra le cose più commoventi dell'arte fuciniana. Fatti i primi studi a Campiglia Marittima, a Livorno, ad Empoli, Renato fu poi studente all'università pisana. Un goliardo sul serio! Pochi quattrini in tasca e molta giovinezza nel cuore: non troppa voglia di studiare, ma una più sicura voglia di riuscire a qualcosa, di essere qualcuno nella vita. Si diplomò in scienze agrarie. Bisognava bene che la scuola desse un salvacondotto di agrimensore a un forte e schietto poeta! Fu prima architetto in Firenze, poi professore di lingua italiana nella scuola tecnica di Pistoia, indi ispettore scolastico in quella città e a San Miniato, ove già era passato il Carducci — oh, come strillavano le cicale!... Ma lasciò presto quella carica e nel 1907, rifiutata la nomina a provveditore agli Studi, da Minerva si congedò senza rimpianto per mettersi a scrivere.
Nel campo letterario Renato Fucini esordi con la pubblicazione di «Cento sonetti in vernacolo pisano » con lo pseudonimo di «Neri Tanfucio. Ai sonetti fece seguire «Napoli a occhio nudo» nel 1878; le « Veglie di Neri » paesi e figure della campagna toscana, nel 1882; «All'aria aperta» nel 1897. Tutto il suo bagaglio letterario è qui: pochi volumi. Ma che volumi!... Se qualcuno avesse voluto giudicare a peso l'opera di questo artista, avrebbe forse potuto rimproverargli povertà e pigrizia di fantasia, ma giudicando, come si deve, dalla qualità bisogna ammettere che questi pochi libri sono destinali a rimanere tra i buoni esemplari nella storia della letteratura italiana, i «Cento sonetti in vernacolo pisano», pieni di brio, di umorismo, di sentimento, di spirito mordace, ora burlesco, ora satirico, di quadretti meravigliosi di verità e di vita, tutti percorsi e nutriti della furba bonarietà dell'anima toscana, rivelarono nel Fucini un poeta-pittore degno di stare vicino ai massimi poeti dialettali. Ma — nemmeno a farlo apposta! — ci voleva un piemontese per rivelare ai toscani un loro nuovo schietto poeta. Fu, infatti, Edmondo De Amicis che, entusiasmato dei famosi sonetti, lo additò all' ammirazione dei contemporanei. Ma più poeta ancora che nei sonetti il Fucini lo è nella sua prosa narrativa. L'umorismo di Renato Fucini fu visione chiara, sagace vita, fu sincerità d'ispirazione, fu arguzia d'osservazione e di pensiero, fu risata limpida e schietta come un canto di fonie in un bosco di castagni, fu freschezza di un mondo pieno di gente alla buona, espansiva di parole, limitata d'intelligenza, casta e prudente di costumi, un mondo di cui rilevò la semplice, ma profonda armonia. Le narrazioni vere, i personaggi parlanti, disegnati con mano maestra, creati con un vero soffio di vita, contrasti evidenti e immediati, da cui il riso sgorga non in merito ai giuochi verbali, ma per intima virtù di situazioni, senza sforzo e senza artificio, la prosa, limpida, inedita e snella, tutta, festosa della viva giocondità dell'idioma toscano, fanno delle sue novelle altrettanti capolavori. Chi può scordare «La scampagnata» e «La fatta», «Il monumento», «Passaggio memorabile», «La visita del prefetto» non sono da meno. Le novelle ispirate ad argomenti di misera vita paesana sono della stessa grandezza artistica. In «Vanno in Maremma» e «Tornano di Maremma » gli uomini che vivono e muoiono sotto il peso delle paurose ingiustizie sociali, condotti da fatalità cieche e inesorabili, vi balzano davanti con un'evidenza e un'efficacia che solo Verga in «Malaria» e altre novelle rusticane han raggiunto.
Una grande pietà umana per questi suoi eroi, spesso ridicoli e gretti, il dono della poesia vera, il patetico gentile che domina in altre novelle, con un'intensità che commuove fino alle lacrime, ecco le virtù principali di una arte ricca di una commozione pura, che si comunica a chi legge con la forza della sincerità. Renato Fucini sdegnò gli imitatori: prove di robustezza e di libertà. Sdegnò la sciatteria delle parole: sdegno di favorire le febbri dei sensi con la volgarità del pensiero e della narrazione: il suo mondo artistico fu casto e gentile. Per la bellezza dello stile, per la serietà e la sincerità dell'ispirazione, per l'umanità profonda, cui l'arguzia e la finezza non han nascosto il senso di pietà e d'amore. Renato Fucini può veramente considerarsi un maestro. E come tale lo salutarono artisti e critici dei maggiori: il Carducci lo tenne, in grandissimo pregio e gli volle un gran bene; Pascoli lo chiamò poeta ed amico; Benedetto Croce disse «sobria e vigorosa» l'arte di quell' «arguto spirito»; Ferdinando Martini non si e mai stancato di esaltare lo scrittore di «limpida, schietta toscanità, il novelliere briosamente profondo, il poeta che ha così ben compreso ed interpretata l'anima popolare, che alla poesia giocosa, troppo spesso lordate da scurrili volgarità, dette intendimenti civili e della lingua del popolo fece veicolo a scendere nell'animo del popolo, allegra sì, ma saggia educatrice». Ma lauta estimazione di grandi, tanto amore di ammiratori, né la lode del critici, né il pubblico successo, mai poterono distogliere Renato Fucini dal suo raccoglimento severo; anzi lo rendevano quasi, scontroso, lo sospingevano in solitudine, ognora alieno dai rumori della celebrità letteraria. Anche in ciò il poeta delle «Veglie» rassomigliava assai allo scrittore dei «Malavoglia». Giovanni Verga lo comprendeva bene perché simile a lui. « Ahimè, caro Fucini! — gli scriveva da Catania nel di festivo delle onoranze fiorentine pel sessantesimo genetliaco: — Come il tempo vi offusca la vita, fin con le onoranze! Io vi voglio bene, io vi vedo ancora quale vi conobbi la prima volta leggendo «Perla» (quanti anni sono!) e quale vivrete sempre nell'opera vostra». Ormai stanco, deciso a non più scrivere una pagina, Renato Fucini ricomparve in questi ultimi mesi nelle vetrine dei nostri librai solo perché un intelligente editore volle ristampare il delizioso volumetto fuciniano «Napoli ad occhi nudi». La visita di Renato Fucini a Napoli — tanti anni fa — si risolse in un vero apostolato e in una buona opera d'arte. «Per un mese — ricordava Giustino Fortunato — per un mese se non più, noi fummo insieme ogni dì visitando i quartieri più poveri e i fondaci di esecrata memoria, il basso porto, l'ospedale, i tribunali, le carceri, il cimitero dalle 375 fosse non ancora abolite, e che discorsi da un luogo all'altro, che imprecazioni e che speranze! Poi visti e sentiti tutti i lacrimevoli mali della città egli volle vedere pure e sentire tutte le incomparabili bellezze del golfo! Dalla duplice peregrinazione veniva fuori quel gioiello di libro che ebbe nome: «Napoli ad occhi nudi». Buono e caro artista! Più ancora di scriver libri egli amava giocare coi bimbi sulla spiaggia del mare, ed erano i fanciulli che ancora riuscivano a risvegliare talvolta nel solitario vecchio l'estro dell'antica arguzia. Solo coi piccoli, nella sua «Cuccetta» di Castiglioncello — una casettina con un parafulmine immenso, tanto che egli la diceva: «la mia casa infilata allo spiedo», Renato Fucini ancora tornava Neri Tanfucio. Era un «pescatore di 'anna» ostinato e paziente, come già era stato appassionalo cacciatore. Forse, gli ultimi versi che scrisse son questi, che narrano la tragedia del suo vano pescare:
Il primo giorno un sole arcicocente
Mi contrariò, sicché non presi niente.
Il secondo, con nuvole e scirocco,
Mi disse meglio, ma non ebbi un tocco.
Ma quando fummo al terzo giorno giunti
Mi disse peggio e non ne presi punti.
Il quarto poi, tanto la sorte è grulla,
La faccenda, cambio, non presi nulla.
Tanto, che, ripetendosi esattamente tale faccenda di quattro in quattro giorni, il Fucini sentì il bisogno,"una "sera" al "caffè" di fondar coi pochi intimi della «partita» la società pescatori: «Sempre... punti Savoia!, la quale era costituita di un «Presi...niente», di un «Vice presi...niente», d'un  «Sagratario», di un «Provi...treore» e di dodici «Gonziglieri». Inutile aggiungere che il «Presi... niente» della Società avrebbe voluto essere lui, il poeta. Ma anche se il Fucini non fosse stato un pescatore fortunato, la sua passione per il mare gli consenti di costituire nella sua « Cuccetta » una specie di Museo... oceanografico, che raccoglieva esemplari d'ittiologia ignoti alla scienza, una fenomenologia antropomorfica veramente bizzarra, e nel quale egli si lasciò spesso sorprendere a studiare i mostri marini rinvenuti sulla spiaggia ed a cui egli affibbiava i più maccheronici nomi scientifici. Ma ora che il poeta è morto, tutte quelle piccole umili cose inanimate, che dallo spirito di lui pigliava vita e nome sulla spiaggia del mare, più nulla sono: tornati sabbia, che il vento disperde. Non cosi — invece — per l'opera dell'artista, la quale è di pura bellezza. Si leverà bene, un dì o l'altro, la buona ventata che disperda da noi tanta falsa e bugiarda letteratura oggi lucrosamente trionfante, per conto del cattivo gusto, ed allora anche i libri di Neri Tanfucio riusciranno più che mai belli e buoni e consolatori ai vecchi e i nuovi lettori, non di Toscana soltanto, ma di ogni parlata italiana. Empoli 25 sera.

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