Castiglioncello ieri

                             DAGLI ETRUSCHI IN QUA

Una storia un po' più documentata di Castiglioncello ce la forniscono solo i primi secoli del Medio Evo; ma prima sarà interessante, per approfondire la reale condizione di questo villaggio all'epoca etrusca ed a quella romana, dare uno sguardo alla zona circostante della quale ci restano assai più sicure testimonianze. Il compianto ed illustre archeologo Nello Toscanelli, con un serio e ponderato studio, ci ha offerto un quadro preciso ed esauriente di quella zona misteriosa che separava la confederazione etrusca dalle terre abitate dai popoli liguri, approssimativamente, dunque, quella che va dai confini della Maremma fino alle propaggini delle Apuane.

La penisoletta su cui sorge Castiglioncello era assai prossima, come abbiamo detto, al territorio etrusco: lo Stato di Volterra, il più settentrionale della confederazione delle dodici Locumonie, aveva presso Rosignano il suo confine sacro, segnato dal torrente Fine. Verso nord-est l'Etruria era delimitata dall'Arno; ma dai monti pisani fino al mare i difensori di quella zona preferirono arretrare il confine appunto al suddetto torrente a causa del terreno inospitale tutto collinette di creta e boscaglie inaccessibili ove, se era sommamente difficile vivere, era anche altrettanto difficile, per gli invasori liguri, penetrare. Ed infatti gli scarsi abitatori della fascia costiera da Vada fino a Pisa e, in profondità, dal mare fino alle alture che da Volterra giungono in vista dell'Arno, non appena avevano notizia di incursiones hostium, si rifugiavano coi loro armenti entro la fortezza volterrana.

Immaginiamoci per un momento questa plaga selvaggia, abitata da lupi, orsi, rinoceronti, iene, elefanti (scheletri di queste fiere sono stati ritrovati qua e là in tutta la zona) ricoperta da sterminate foreste, minacciata dal mare dai corsari che ogni tanto si abbarbicavano coi loro legni leggeri alle scogliere o si spingevano sulle brevi spiagge pronti nei covi per l'agguato o per la spartizione dalla preda, mentre da settentrione premevano i barbari con le loro sterili ma terrorizzanti scorrerie. Nessuna strada, nessun sentiero si avventurava per quelle selve; solo i letti dei torrenti servivano ai pochi abitatori per trasferirsi, nella stagione di magra, da un luogo all'altro; oppure a misteriosi cercatori di metalli per raggiungere poveri filoni di ferro e di rame, come attestano ancor oggi i cunicoli e le gallerie scavati nelle fratte del torrente Acquerta, in Val di Fine.

Facile è immaginarsi intorno a quelle polle o giù per le scarpate brulle che vanno al mare le austere e slanciate femmine etrusche con quelle loro anfore scure sul fianco; un po' meno facile invece sarà ricostruire, (le dicerie popolari e persino alcuni storici lo hanno fatto) certe leggendarie città, come quella che giacerebbe ora sul fondo del mare, presso Vada, sommersa dal bradisismo o da più violenti moti tellurici che la storia ignora. Secondo tali tradizioni marinaresche le secche di Vada sarebbero il residuo di una penisola sprofondata nel mare, e c'è chi ha affermato che sul fondale si vedono ancora le rovine di una città e persino la chiesa col campanile! Le ricerche hanno dato esito negativo, è vero; ma la diceria resta e guai a dire a un pescatore di Vada che la città sommersa non è mai esistita. Lo Stato di Volterra, attratto verso i maggiori centri della Confederazione, non ha mosso un passo, come abbiamo visto, oltre il fiume che ancora conserva il nome (Fine, da Finis = confine) del sacro confine etrusco. Ma la potenza di Roma si espande, e Roma è uno stato pervaso da ben altra mentalità: tutto l'equilibrio statico della nazione etrusca verrà scosso e rivoluzionato dalla dinamica di Roma.

Oltrepassato il territorio etrusco, i romani si trovano la via sbarrata da questa selva primitiva. Essi hanno bisogno di passare, di far presto: turbe di barbari si affollano sui passi alpini e li scavalcano minacciosamente; occorre affrontarli e respingerli. È nel 109 a.C. che Emilio Scauro completa la costruzione della nuova via che resterà fino ai nostri giorni col suo nome e che congiunge, in prossimità del litorale, lo stato etrusco con la regione dei liguri. Non passerà molto tempo che questa via si dimostrerà utilissima nelle guerre che Mario condurrà contro Teutoni e Cimbri, concluse con l'uccisione — ad Aquae Sestiae in Gallia e ai Campi Raudii in Piemonte — di oltre centomila invasori. Le legioni, le vettovaglie, i corrieri, avevano percorso la nuova strada di Emilio Scauro. Per l'apertura di questa arteria, le condizioni della zona di cui ci occupiamo vengono radicalmente a mutare. Tutta la costa assurge a nuova vita, sorgono qua e là lungo la via consolare villaggi e centri militari di vettovagliamento, mentre l'importanza di Volterra, tagliata fuori dal traffico, decade.

Ora nella plaga boscosa non regna più il terrore come ai tempi delle scorrerie dei Liguri, i quali, illusi fino ieri di poter conquistare quel territorio trascurato dal conservatorismo etrusco, si sono visti piombare nella loro medesima terra le massicce legioni repubblicane. E contro di esse non c'è proprio nulla da fare; ora la boscaglia viene diradata, le belve vengono uccise, ed un'altra città contende con successo il primato dei traffici a Volterra: è Pisa che la Via Emilia di Scauro ha messo a contatto con. Roma. Siamo, ormai, all'Età di Cesare, alle soglie dell'Era Cristiana: e nel dolce arco che da Vada si spinge fino alla penisoletta abitata da pochi pescatori italici o da predoni, nasce a poco a poco una costellazione di villaggi che s'infittisce e si organizza in una ridente città. Questa, sull'area che attualmente ospita l'abitato di Rosignano, a monte della Solvay è la famosa Velinis che tre secoli più tardi verrà segnata sulla Tabula Peutingeriana; e alla sua periferia appartengono quasi con certezza la grande necropoli scoperta nel 1907, i pavimenti a mosaico osservati a Caletta, i resti delle fabbriche che si ritrovano qua e là lungo la costa.

Il fiorire di Velinis coincide (un po' più di mezzo secolo dopo Cristo) col viaggio di San Pietro a Roma. Cento cinquant'anni prima i milites romani, luccicanti di elmi e di lance, tra scalpitar di cavalli e nembi di polvere, avevano portato in questa regione primitiva la rivelazione di una potenza che a nessuno poteva sembrare uguagliabile; ora, all'insaputa di tutti, un vecchio mite ed inerme, che parlava un linguaggio incomprensibile e viaggiava a piedi, faceva in senso inverso quella medesima strada per recare nel cuore dell'impero pagano una semplice parola di fratellanza che avrebbe non soltanto rovesciato i signori del Palatino, ma addirittura trasformato la faccia della Terra. La storia, al riparo dello scudo del tempo, nobilita in certo modo un po' tutti i suoi protagonisti; ma un critico acuto può facilmente ricostruire la situazione delle popolazioni pacifiche di quei tempi.Perché anche in quei tempi le popolazioni erano generalmente pacifiche e non gradivano di certo — come non hanno mai gradito ne gradiranno mai — l'imperio della forza che sotto Roma, specialmente all'epoca delle conquiste, si fece particolarmente sentire.

Oggi leggiamo con una buona dose di indifferenza degli stermini di popolazioni e di eserciti nemici; ma è facilmente immaginabile il regime di vessazioni e di soprusi a cui venivano sottoposte le terre conquistate dagli eserciti mercenari dello strapotente impero, senza neppure bisogno di rievocare la tratta degli schiavi e la loro crudele utilizzazione. Ma l'ora del « redde ratio-nem » viene sempre per i tiranni, e le insegne lucenti, le aquile dorate, il bagliore di mille e mille spade, di mille e mille lance, tutto tramonta, quando il senso della pietà prende il sopravvento sugli uomini. Pietro sbarcò dal suo battello — così la tradizione confortata da recenti scoperte archeologiche — presso la foce dell'Arno, a San Pietro a Grado; e di là dovette con tutta probabilità raggiungere Pisa e poi proseguire per la via di Emilio Scauro, transitando per le tappe segnate nella « Tabula Peutingeriana », cioè Turrita, ad Fines, e forse anche per Velinis, così prossima alla via consolare. Su questo itinerario dovevano seguirlo, nei secoli, moltitudini di pellegrini, man mano che le legioni imperiali si disperdevano, sconfitte dall'inerme prodigio del nuovo Verbo.

I resti dell'antica Velinis sono in verità una povera cosa per una città che tutto fa ritenere assai estesa; ma bisogna pensare che dopo l'apertura della Via Emilia, ad un periodo di splendore per tutta la fascia costiera del Tirreno, seguirono lunghi secoli di squallore, sopratutto a causa della malaria che infestò la zona fino al principio del secolo scorso e, in certe località, fino al nostro. In questa lunga notte medievale solo i grandi centri, situati nei luoghi vitali per traffico o per industria, si salvano: Velinis invece decade, e di Castiglioncello poco si sa della storia dei primi secoli dell'Era Cristiana. Nel 1825, scavando per costruire una casa, fra il paese di Castiglioncello e Caletta, si scoprì un altare che si disse appartenuto a un'antichissima chiesa chiamata San Salvatore; si disse anche che fossero state rintracciate reliquie di Santi, ma nessuna indicazione precisa fu possibile ricavare da quella scoperta. Il documento più antico che si abbia risale al 25 luglio 1711 ed è un contratto stipulato da Lamberto e Tegrino Visconti, i quali col consenso del padre Marco Visconti concedevano la partecipazione al loro fratello Ubaldo nella proprietà del Castello di Montemassimo e nei diritti sulla Corte di Nubila. Questo atto fu rogato dal notaio dell'imperatore Federigo nel castello di Castiglione, presso la chiesa di San Bartolommeo: e ciò fa pensare o che la chiesa di San Salvatore e quella di San Bartolommeo siano state la stessa cosa, magari dedicata in diverse epoche a due diversi Santi; oppure che Castiglione, per quanto ridotto a poche case, avesse due chiese; il che, se si pensa che qualche secolo prima quel luogo era abitato da un notevole agglomerato di persone, è sempre possibile, anche considerando che la decadenza — come è avvenuto in molti luoghi — abbia fatto diradare le case pur lasciando intatte le chiese.  Da "Castiglioncello" di Milziade Torelli pubblicato nel 1950, scaricabile dal sito.

...la storia continua nelle didascalie delle foto con ...

 

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