Gli ospiti di Castiglioncello  Cronache


Da "La Nazione" del  2-04-1955 di P.E.P.

È morto Silvio D'Amico una vita spesa per il teatro
 

Roma - Oggi alle 13:30 nella clinica delle suore di Santa Elisabetta a Roma si è spento Silvio D'Amico a 68 anni. Era affetto da un tumore diffuso al polmone destro. Al momento del trapasso erano presenti la moglie Elisabetta e i figli Fedele e Marcello. Silvio D'Amico aveva cominciato ad accusare un leggero malessere appena 15 giorni addietro. Di ritorno da Milano disse alla moglie di sentirsi poco bene. Nulla di grave il raffreddore ed una tosse stizzosa che impediva di respirare liberamente. Tuttavia assicurò che sarebbe andato lo stesso in Grecia per conto dell'Accademia d'arte drammatica, trattandosi di un viaggio al quale teneva molto. Nessuno in quel momento dette peso al malessere accusato dallo scrittore. Sennonché qualche giorno dopo egli lamentò anche un persistente singhiozzo che cominciò a preoccuparlo. Si fece visitare da un medico che restò alquanto perplesso di fronte sintomi accusati dall'infermo e consigliò un consulto. Il responso fu allarmante: un probabile tumore ai polmoni. Per il momento la diagnosi venne tenuta nascosta al malato che si sottopose in una clinica in via Col di Lana ad accurate indagini radiografiche. Le lastre furono immediatamente sottoposte all'esame del professor Frugoni che lo aveva già visitato nel consulto e l'illustre clinico confermò la primitiva diagnosi di tumore al polmone destro. Silvio D'Amico aveva sempre pregato i congiunti di non nascondere la verità, così accolse la notizia con esemplare serenità: chiese i sacramenti che gli vennero somministrati dal cappellano della clinica e attese con cristiana fortezza il momento del trapasso. La salma dello scrittore è esposta alla sede dell'Accademia d'arte drammatica in piazza della Croce Rossa. La notizia della morte dell' illustre critico si è sparsa rapidamente per la città nel pomeriggio e immediatamente è stato un accorrere di personalità della politica, del teatro, del cinema, nella clinica delle suore di Santa Elisabetta. In una saletta di accesso alla cappella era stato posto un registro che in breve è stato coperto di firme. Il primo ad accorrere in via dell' Olmata è stato il sindaco Rebecchini. Immediatamente dopo il giunto il dottor De Pirro direttore generale dello spettacolo, legato allo scomparso da un'amicizia trentennale. Poi sono sfilati numerosissimi artisti del teatro e del cinema, prima fra tutti Wanda Capodaglio.
Il critico e lo scrittore - Si spenge con Silvio D'Amico l'ultimo critico teatrale italiano di risonanza nazionale. Più volte è vero a voce e per iscritto aveva affermato di non essere altro che un cronista: aveva fermato che la sua e la nostra professione, era solo quella di annotare giorno per giorno gli avvenimenti della scena di prosa per fornire agli altri, ai veri critici, la materia per un sereno e fondato giudizio. Affermava così, ma così non era. Dopo la scomparsa di Renato Simoni, era restato solo lui ad indirizzare veramente l'opinione pubblica e gli attori stessi sui problemi più scottanti del palcoscenico. Con ciò aveva sollevato rancori e polemiche, si era attirato inimicizie e critiche severe. Controbatteva affermando che non si può essere in pace con tutti e magari, con quel sottile senso di umorismo che gli era proprio, affidava alla pagina bianca le
«Confessioni di un cronista teatrale altrimenti detto critico drammatico» per mettere a nudo le difficoltà nelle quali si dibatte chiunque abbia a che fare con attori e registi, autori e pubblico. Nato a Roma nel 1887, a Roma cominciò la sua carriera di funzionario addetto al Ministero della pubblica istruzione, ma ben presto lasciò da parte i problemi burocratici, per avviarsi al giornalismo e in particolare alla critica (o se volete alla cronaca) drammatica. D'altro canto non trascurò la saggistica tipicamente ispirata a motivi religiosi. Cattolico convinto e militante, traduceva nei volumi che oggi meno si ricordano, perché sopravanzati dall'opera più insigne di studi sul teatro, i sentimenti di un credente che la vita non voleva ignorare né sfuggire: che anzi voleva viverla intera e con ottimistico senso di partecipazione, senza venir meno al suo credo. Così fu per "Pellegrini in Terrasanta" (1926), così per "Scoperta dell'America cattolica" (1927), così per "Certezze" (1932). Ma come dicevamo altra e più significativa fu l'opera sua di critico e di storico del teatro iniziatasi con "Maschere" (1921), note sull'interpretazione scenica che sollevarono discussioni e forse anche qualche sorpresa, soprattutto nel campo degli attori. Quelle personalissime e incisive note che veniva raccogliendo dai molti scritti apparsi sul giornale ("L'idea nazionale") aprivano il terreno ad un altro e più robusto volume: "Tramonto del grande attore" (1930), con il quale D'Amico prese una posizione decisa nei confronti della scena italiana di prosa. Si era andato maturando in lui il convincimento che occorreva, alla fine, uscire dalle secche di una tradizione malintesa, per portare un soffio di aria nuova fra le quinte e fondali di cartapesta. Le esperienze fatte all'estero, la presenza di Copeau e le dottrine che quest'ultimo traduceva in realtà, spogliando la scena degli orpelli e restituendo il valore originario alla Parola; l'influsso dei russi dei tedeschi il tecnicismo degli americani, erano altrettanti motivi per credere che solo in Italia il teatro vegetasse su viete e scontate posizioni.
Con il "Tramonto del grande attore", Silvio D'Amico avvertì l'urgenza di aprire al nuovo teatro nuove strade, di sostituire la vecchia formula del mattatore con quella della compagnia affiatata e amalgamata, l'urgenza dello spettacolo non di cassetta, ma di arte. E su queste posizioni rimase sempre, attraverso battaglie verbali di ogni genere. La più aspra delle quali fu quella combattuta con Antonio Giulio Bragaglia, che pretendeva di attribuire al
«corago», al regista, una preponderanza eccessiva, fino a soppiantare l'autore stesso. D'Amico poneva la questione in termini diversi. Proclamava cioè, la necessità di un regista, ma che fosse rispettoso del testo. Chiamava il Poeta ad assolvere per primo e da solo la funzione più alta del teatro, attribuendo all'altro al direttore, il compito di una mediazione spirituale con il pubblico. Di questa lunga appassionata lotta c'è traccia in quasi tutti i libri che D'Amico ha lasciato: da "Crisi del teatro" (1931) all' "Invito al teatro" (1935) dal "Teatro italiano del Novecento" (1937) alla "Preparazione alla scena moderna" (apparso sulla Rivista del dramma, 1938) da "Dramma sacro profano" (1942) al "Teatro non deve morire" (1945) a "Mettere in scena" e "Epoche del teatro italiano" (1954). Ma l'opera veramente monumentale cui resta affidato il nome di D'Amico è la "Storia del teatro drammatico" iniziato a pubblicare nel 1938, unica nel suo genere in Italia. Presidente dell'Accademia d'arte drammatica di Roma, trovò in questa sua funzione il modo di formare nei giovani uno spirito di appassionato fervore, anche se non sempre ebbe la ventura di veder realizzate all'atto pratico le norme di insegnamento impartite. Pure dall'Accademia uscirono alcuni fra i più validi nomi di attori contemporanei. E comunque dall'Accademia partì il senso di un'aspirazione a più nobili intenti che non fossero quelli del successo materiale. Nel secondo dopoguerra Silvio D'Amico vide profilarsi all'orizzonte i frutti di una lunga lezione: vide nascere i "Piccoli teatri" da lui preconizzati sul modello di quelli di altre nazioni, vide ampliarsi il concetto delle "Stabili", vide impresari e registi dedicarsi ad opere di vasto respiro rigettando nei cassetti delle vecchie scrivanie, i copioni melensi di un'epoca per sempre tramontata. Di ognuno di questi tentativi, di ognuna di queste imprese, Silvio D'Amico è stato cronista fedele ed attento, giudice severo. Non mancava occasione per incontrarlo alle "prime" di rilievo romane, milanesi, a Venezia, al festival della prosa a San Miniato per il Dramma popolare, a Firenze fino a che il "Maggio" non ripudiò agli spettacoli di prosa, a Siracusa per i classici greci. Era in perpetuo movimento, tempra eccezionale di uomo sempre accorto nel dire, sempre preciso nel citare. Pochi minuti dopo la prova generale, già disegnava con facile e agile parola il quadro di una critica ideale che poi traduceva in quella sua prosa saporita e vivace, gustosa ed arguta, resa popolare dalla radio (per la quale negli ultimi anni, partecipò assiduamente ai "convegni di cinque") L'amore per il teatro però, non lo aveva allontanato dagli studi di varia letteratura ed un esempio piacevole resta il volume "Bocca della verità" (1943), omaggio a Roma di un romano che aveva avuto la ventura di conoscere la capitale nei giorni della "belle epoque".
A rileggere oggi le critiche sparse in giornali e riviste ("Idea nazionale", "La tribuna", "Nuova Antologia", "Il tempo") e ripercorrere i due volumi di "Palcoscenico del dopoguerra", il profilo dell'uomo appare chiaro il nitido. Profilo di un credente che ha portato la sua fede su un piano di attualità e che vena di questa forza spirituale su pagine, ma che sa a tempo opportuno, uscire da vincoli del conformismo per affrontare a cuore aperto l'esperienza vissuta. Si potrà a distanza di tempo sceverare il giusto dall'ingiusto delle sue tesi, delle sue polemiche, delle sue battaglie. Ma non bisognerà, non si potrà dimenticare mai che Silvio D'Amico, cronista non critico, come lui stesso voleva, ha atteso sempre con fede l'avvento di un poeta nella nuova scena italiana.   P.E.P.

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