Vada la campagna
            Trebbiatura del grano 

                   LA TREBBIATURA
                  Sicuramente l'avvenimento vissuto come più importante del podere.

 Il «sistema di gran coltura dei cereali», che comportava la semina dei campi una volta ogni 3-4 anni, aveva caratterizzato l’agricoltura maremmana fino a tutto il XVIII e a buona parte del XIX secolo. Tipico di regioni povere di manodopera e di bestiame da stalla (e, di conseguenza, prive di concimi), esso non permetteva che una scarsissima produttività dei campi, che erano costretti a lunghi anni di riposo prima di essere nuovamente seminati. Trebbiare significava la conclusione di un lavoro lungo e faticoso spesso fatto di zappa e vangatura a mano per preparare il terreno. Oltre alla fatica, mesi di timori  per la siccità, per il vento, per la grandine, e poi sotto il solleone estivo, prima dell'uso delle macchine, tutto il lavoro di trebbiatura era fatto a mano.

Ma anche con le prime macchine la manualità era tanta. Il risultato era mettere nella madia il pane per quasi tutto l'anno e il pane era la rivincita sulla fame. I preparativi cominciavano per tempo. L'aia, ovvero l'area ammattonata, di solito rotonda, riservata ai principali lavori esterni della casa colonica, veniva accuratamente ripulita da sassi ed erbacce, rilivellata e spazzata. Poi cominciava col carro il trasporto dei covoni dal campo, già tagliati e legati. Sull'aia, venivano ammassati  formando la "barca". E vicino a questa, una piccola di biada e una di orzo, con in cima quando c'era, l'orzo mondo, per fare il caffè. Ma si doveva allestire il necessario anche per la macchina a vapore: legna e acqua. Arrivava nero, pesante il trattore col lungo fumaiolo e dietro, alta  traballante e polverosa, la trebbiatrice. Gli addetti le sistemavano sull'aia alla giusta distanza per poter inserire il cignone nei due volani, uno piccolo sulla macchina ed uno enorme sulla trebbiatrice in modo che ruotasse a velocità ridotta e poi fuoco a volontà per produrre vapore e metterli in azione. La cinghia iniziava a girare ed i contadini (anche dei poderi vicini che si davano aiuto reciprocamente in queste occasioni), con forche, forconi e rastrelli iniziavano la loro attività come ben sapevano, ognuno un compito: uno alla barca dei covoni, uno alla pula, uno al pagliaio, ai sacchi, sulla trebbiatrice e così via. Ore e ore, in un polverone irrespirabile e un rumore assordante nel sole cocente. Ma anche per la massaia, ovvero il capofamiglia al femminile, il problema di mettere a tavola il gran numero di persone non era da poco.  Il lavoro prosegue alla velocità imposta dalla macchina trebbiatrice, dallo staccio posteriore della quale usciva senza posa, paglia (lo stelo del grano) e pula (la buccia del chicco). I contadini portavano con la forca la paglia intorno agli stolli (pali centrali dei pagliai) ormai nudi, per rifare i pagliai, ammassandola tutt'intorno fino alla sommità. Sarà l'alimento ed il letto degli animali da stalla. La pula veniva invece insaccata e sarebbe stata il pastone per i maiali e polli durante l'anno. Sul davanti la macchina lasciava uscire un filo dorato di grano, che gli uomini si facevano cadere con piacere sulle mani unite, prima di lasciarlo entrare nel sacco. Al rintocco delle 12 del campanile sosta generale, fuoco al minimo e tutti gli uomini, sudati, polverosi, affamati, invadevano la tavola preparata all'ombra del fico sempre presente dietro casa.  Meno di due ore di sosta, qualcuno accennava un pisolino e poi macchine a tutto vapore fino a sera, con i sacchi che pian piano si riempivano e si accumulavano fino all'esaurimento dell'ultimo covone. Tutto per ricominciare domani sull'aia vicina.

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