Gabbro ieri
1932 - Livorno piazza Garibaldi angolo Via della Pina d'Oro. Donne del Gabbro vendono i loro prodotti trasportati nelle ceste sulla testa dal paese. (Fonte Facebook "Foto di Livorno")

  Nel 1795 una sola strada scende da Nibbiaia verso il Chioma ed è denominata: “strada che da Nibbiaia conduce a Livorno”; la stessa la ritroviamo circa trent’anni più tardi indicata nel catasto Leopoldino con il nome di: “Strada che va a Montenero” ed ancora: “Via delle Corazze” nel Nuovo Catasto Toscano del 1941. Questa strada esiste ancora oggi, ma, per lo stato in cui versa, appare difficile immaginarla carrabile anche nel periodo del suo pieno utilizzo. In alcuni tratti (loc. Debbione) mantiene un buon acciottolato mentre più a valle, in epoca recente, è stata deviata per passare davanti a casa Ciambelli e quindi ritornare, negli ultimi 50 metri prima del guado, nel tracciato originario. Testimonianze raccolte in zona ci dicono che fino ai primi anni del secolo questa strada era abitualmente percorsa, “a piedi”, dalle donne di Castelnuovo della M.dia e Gabbro per recarsi a Livorno a vendere i prodotti dei campi. (Da "La Valle del Chioma" scaricabile dal sito).
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                         Mamma Isolina, la gabbrigiana coraggiosa.
Per raggiungere Livorno dalla frazione collinare del Gabbro oggi, in auto, s'impiega poco più di un quarto d'ora: strade asfaltate, seppur piene di curve. Sono appena diciassette chilometri. Però, oltre un secolo fa - parliamo degli anni precedenti la Grande Guerra - non era così e farli a piedi, andata e ritorno, ogni mattina, col sole o la pioggia, il freddo od il caldo era un'impresa. Eppure per Isolina, analfabeta, madre di cinque figli, il marito rinchiuso a vita nell'Ospedale psichiatrico di Volterra per aver litigato con un carabiniere, la sveglia suonava alle tre e mezz
o del mattino. Alle sei, puntuale, era al Mercato proprio per sistemarsi nel posto migliore e vendere i suoi polli. Già i polli. Erano il sostentamento dell'intera famiglia. Ma per vincere la concorrenza, non bastava mettersi in prima fila. E lei, l'aveva capito subito. Alla gente garbava comprarli già spennati e non fare alcuna fatica. Così, nel pomeriggio precedente, li spennava uno ad uno, li sistemava in tre grosse ceste, una per ciascun braccio e l'altra sulla testa e via per la strada ch'era ancora buio.Poi, venduta l'intera mercanzia, di nuovo - stavolta in salita - per arrivare a casa, mettere a tavola i ragazzi e cominciare a spennare altri polli. In silenzio, sempre, senza mai lamentarsi. Lei era una Franceschi, la famiglia veniva dalla Corsica, gente tosta, che non si piegava certo per la stanchezza e comunque, per i figli, avrebbe fatto ben altro. Questa è stata un'altra storia. Quella più dolorosa cominciò, invece, qualche mese prima dell'entrata in guerra da parte dell'Italia. La "cartolina" dell'Ufficio di Leva, una tragedia per tanti giovani, giunse puntuale. Primo e Secondo, i figli più grandi ( per non sbagliare, i successivi li aveva chiamati Terzo, Quarto e Quinto)sarebbero dovuti partire di lì a breve per arruolarsi e combattere. Come avrebbe fatto la famiglia ad andare avanti? Isolina ne parlò, angosciata, dal vinaio, il ritrovo un po' dell'intero paese. Si conoscevano tutti. Gente contadina, semplice. I più anziani avevano fatto il soldato e conoscevano il mondo. "L'unico modo per non partire - le disse l'oste - è che si tolgano i denti davanti. Senza denti, non si fa il soldato". La donna rimase di stucco. Non se l'aspettava, non poteva credere alle proprie orecchie. Non sapeva se fosse un bene od un male. Uscì subito, ancora più confusa di quanto era entrata. A casa chiamò i due giovani e raccontò del suggerimento dell'oste. I due la guardarono sbigottiti. Con uno sguardo, cercò di rassicurarli. D'altra parte non esistevano alternative. "Mamma - risposero decisi - meglio senza denti, ma vivi, piuttosto che con i denti, però morti sotto le cannonate". Erano giovani tutti d'un pezzo, che sapevano affrontare le difficoltà ed ogni giorno si spaccavano la schiena allo scopo di sfamare i loro fratelli. Dunque, fu deciso così, senza tentennamenti. Isolina li vide andar via. Non riuscì a dire nulla, una scelta drammatica. Poi, silenzio. Ma l'attesa non si protrasse a lungo. Passò un'ora e li vide tornare. Da lontano, comprese cosa erano stati costretti a fare. Se li trovò davanti, irriconoscibili. I volti tumefatti dai colpi del badile, due maschere di sangue ed ancora quelle bocche orrende senza più i denti. Cercò d'abbracciarli, si trattenne, non voleva umiliarli. Sputavano bava rossa, ma lo sguardo era fermo, nessun lamento. Erano Franceschi, erano còrsi. Una notte tremenda, angosciante, poi il giorno seguente nei campi. Non c'era tempo per pensare. Fu il giorno dopo che cominciarono ad avere febbre. Dovettero tornare a casa, si sentivano deboli. Isolina preparò degli sciacqui con acqua e malva per disinfettare le ferite. Però la temperatura saliva. Erano sdraiati sui letti. Mise loro delle bende d'acqua fredda in fronte, tentando di far calare la febbre. Niente. Ed il giorno dopo ancora, la situazione cominciò a peggiorare, scottavano entrambi, gli occhi cominciarono a perdere lucidità, parlavano a fatica. Cercò di farli bere con la brocca dell'acqua, pochi sorsi, esausti. Iniziarono a tremare, sembravano convulsioni, li tenne al caldo con le coperte di lana. L'agonia andò avanti qualche giorno, poi il respiro si fece flebile e nell'arco di alcune ore chiusero gli occhi per sempre. Isolina non versò una lacrima. Rimase composta. Doveva mandare avanti la vita di casa e c'erano altre bocche da sfamare. Li seppellì in fretta. Perché il giorno successivo doveva andare al mercato. Cominciò a spennare i polli, per non pensare. Quando ritornò al Gabbro, andò come sempre dal prete. Era lui che l'aiutava a scrivere le lettere al marito, che rispondeva grazie all'aiuto del capo delle guardie. Così, fino alla sua morte. I familiari oggi hanno un carteggio di cinquecento lettere, un amore infinito che qualcuno ha riportato in uno struggente lavoro teatrale. Gente d'altri tempi. Erano còrsi. Questo sì.  Gian Ugo Berti - Il Tirreno 1/3/2020.
Da una ricerca molto capillare, dal 1592 al 1926 (anagrafico Gabbro): le donne appartenenti alle famiglie Franceschi nate a Gabbro, non possono essere madri dei due ragazzi, in quanto decedute tutte in tenera età. Questo fa supporre che la citata Isola Franceschi avesse residenza a Nibbiaia e fosse nata in Corsica. (Grazie a
Corrado Palomba per la ricerca).
                                                                                                         
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                                  LA SPAGNOLA AL GABBRO
La mia bisnonna si chiamava Alessandra Banti, detta 'la vizza' per l'estrema magrezza. Donna energica, probabilmente non proprio bella, si sposò in tarda età con Giovanni Martelloni, detto 'Nanni'. Non si arrese quando lei e tutta la famiglia contrassero la 'spagnola' dell'estate 1918. Sostenevano che a salvarli fosse stata una dieta sana a base di Pomodori, vino ed aglio. In realtà la spagnola mieteva vittime nelle persone di mezza età, quelli che allora avevano una trentina d'anni o poco più. Né la vizza ed il marito Nanni, né le figlie Fenisia e Assunta erano troppo o poco giovani per rimanere colpiti in modo fatale dalla grande mietitrice. Tutti e quattro si ammalarono senza grandi complicazioni polmonari. Assunta, la più giovane e intraprendente, una volta guarita si precipitò al Lazzaretto del Gabbro (probabilmente villa Mirabella) dove prestò assistenza agli sfortunati degenti: ".... come stai?", mia nonna assunta mi raccontava, "bene", rispose lui "ho mangiato e bevuto e in corpo segano e, segano ancora". ".. poi morì.." era la frase che ogni volta, con angoscia ed incredulità, ci raccontava mia nonna per descrivere l'improvvisa morte che sopraggiungeva, silenziosa, nascosta, traditrice ed inattesa in quegli sventurati ammalati di spagnola.
Alessandro Lenzi aprile 2019.
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Le donne quando andavano a Livorno a vendere polli e uova indossavano le sciarpe per proteggere la bocca e il naso. La grande guerra e la "spagnola" Gabbro pioniere nelle mascherine.

Per non ammalarsi di "spagnola" (l'epidemia che durante la Grande guerra provocò oltre 50 milioni di vittime), le donne del Gabbro venendo in città a vendere polli e uova, usavano indossare solitamente una sciarpa per ripararsi bocca e naso. Cento e più anni fa, però, la conoscenza dei virus e del loro modo di trasmissione attraverso il respiro, erano praticamente nulle fra la popolazione. Eppure, già a quei tempi, la saggezza popolare aveva percepito come tutta quella gente poteva sentirsi male attraverso l'unica via di comunicazione, ovvero l'aria che respirava. Ma per la cronaca, c'è di più. La fatica del viaggio, ovviamente a piedi con gli sportoni zeppi di mercanzia nelle mani, era notevole. E loro, per sopravvivere e portare soldi a casa, non potevano rinunciare a quel poco di guadagno. Dunque, come energetico, mettevano del tabacco in un sacchetto di tela appositamente costruito con ago filo ed appeso alla cintura. Trovavano giovamento e forza, prendendone via via un poco fra le dita ed annusandolo, inspirandone l'odore. Chissà chi glielo avrà detto. Eppure, al di là dell'indiscutibile saggezza tramandata da generazioni, l'ipotesi che le malattie fossero legate all'aria malsana risale a oltre duemila anni fa. Sì, perché questa sensazione era già conosciuta dalla medicina barbarica. In seguito, i Norreni (Vichinghi), durante le epidemie che colpirono la Scandinavia, si difendevano coprendosi il volto, perché secondo la tradizione, il "Male" giungeva col fiato. Inoltre, si deve a loro il termine "Quarantena" od isolamento. Essendo infatti navigatori, quando tornavano dalle spedizioni, venivano isolati per quaranta giorni in quanto il "40" era un numero sacro per la loro religione. Nemmeno gli antichi Romani lo sapevano. Fu solo Plinio il Vecchio (circa 23-79 dopo Cristo) a descrivere l'uso di pelli di vescica animale per proteggere i lavoratori delle miniere dalla polvere di ossido di piombo rosso. Ne parlava Marco Polo nel 13° secolo con quelle di seta e filo d'oro quando, in Cina, si servivano i pasti all'Imperatore. Dal canto suo, Leonardo da Vinci inventò un panno immerso in acqua. La svolta si ebbe con la peste, maschere con naso adunco per i medici, riempite d'armi e spezie (Marsiglia) ed i becchini che trasportavano i corpi con stoffe avvolte attorno a naso e bocca contro i cattivi odori nell'aria. Nel Medio Evo, durante il quale la medicina era gestita nei monasteri, le donne delle erbe o streghe, più a contatto di altri con i malati, usavano coprirsi bocca e naso. Lo stesso Enrico VIII°, re d'Inghilterra, dovette gestire per due volte a livello politico un'epidemia, di cui allora non si conosceva niente, la cosiddetta "febbre anglica o inglese o sudor anglicus, poiché il malato sudava copiosamente. La morte arrivava solitamente entro 48 ore. Se superava la fase critica, aveva qualche speranza di salvezza. In particolare, in occasione della drammatica "influenza" che dimezzò la popolazione a Londra, per preservare la monarchia si ritirò in campagna, pensando giustamente che l'aria salubre avrebbe evitato in qualche modo il peggio. Conosceva la storia? Forse sì, forse no. Una delle sue mogli, la regina Caterina d'Aragona, con le sue tradizioni arabo - spagnole ne usò invece una speciale, oggi paragonabile ad un "chador". Fu alla fine dell'800 che comparvero le mascherine in sala operatoria, incapaci di bloccare l'emissione del respiro sui lati. Cosa che avvenne nel 1910 con mascherine respiratorie a chiusura ermetica. Furono usate per la prima volta durante l'epidemia di "spagnola". Il modello prevedeva una legatura dietro l'orecchio e filtro, prendendo spunto dalle maschere anti-gas. Fu invece un cinese che s'inventò una garza aderente attorno al viso, Lien-Teh Wu. Da lì ad oggi il passo è stato breve. Oggi sappiamo tutto, anche decidere di non indossarle. Appare quindi chiaro come l'umanità si sia ingegnata, con i mezzi e i tempi di ogni generazione. È sempre stata una semplice intuizione, legata ad attente osservazioni. Ed allora ci chiediamo, ma al Gabbro chi ha portato la notizia? È più probabile, con pieno merito, che c'abbiano pensato da sé.
Gian Ugo Berti - Il Tirreno 14/2/2021.

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