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		Il cammino dei pastori 
      Con l'autunno arrivava il tempo della transumanza, i pastori lombardi 
                intraprendevano un viaggio che sarebbe durato dai sette ai 
                quindici giorni verso territori un tempo facenti parte di un 
                unico immenso feudo, lungo strade regie e i tratturi detti poi, 
                vie Maremmane o Doganali. 
		 Dopo le importanti feste di settembre 
                (la Natività della Madonna, l'Esaltazione della Croce, san Michele) e fatti i contratti, a novembre, quando cominciava a 
                far veramente freddo, a piedi, o i più fortunati con un asino, 
                un cavallo o un mulo sopra il quale caricavano le masserizie, i 
                pastori si mettevano alla guida dei greggi delle pecore e delle 
                capre da far svernare in luoghi più caldi per la vicinanza del 
                mare, come ricorda questa lapide nel paese di Soraggio sulle 
		Apuane. Portavano con loro la farina dolce di castagne che 
                avevano raccolto e macinato per venderla agli abitanti della 
                costa, ma anche prodotti di contrabbando (sete, lane) o di 
                artigianato. Spesso avevano dietro i ragazzi da impiegare come 
                garzoni, o delle donne da maritare o far lavorare come 
                domestiche e non mancavano i cani da difesa. Poteva 
                accompagnarli anche qualche altro emiliano: un carbonaio o un 
                fabbro, un sensale di bestiame, qualche mercante di stoffe 
                milanese, o un terraticante che era uno dei lavoratori 
                della terra più poveri. Arrivati nei paesi di Maremma i pastori 
                effettuavano quelle pratiche che il Comune richiedeva sia per la 
                riscossione delle gabelle, che per l'ordine pubblico. Prendevano 
                alloggio in un domicilio coatto, un capannone o una casa 
                attrezzati al bisogno che aveva nome di masseria. Quella 
                del Gabbro, documentata molto tardi (1566), ospitava un migliaio 
                di ovini e due cavalli per varie incombenze. Qui avevano 
                riferimento in un capo pastore, un emiliano o uno del posto che 
                si era aggiudicato l'asta dei proventi del pascolo e vigilava 
                sul rispetto di varie norme. Al Gabbro fu detto in vari tempi 
                conduttore, paschiere, proventuario; altrove ebbe il nome di 
                vergaio. Erano suoi sottoposti dei garzoni o butteri che si 
                occupavano del trasferimento e del soggiorno degli animali. La 
                masseria del Gabbro dovette essere collegata anche all'osteria, 
                uno dei nomi con cui era chiamato il provento pubblico del vino 
                e del macello. Spesso l'asta veniva fatta a settembre, cioè non 
                molto prima dell'arrivo dei greggi emiliani. Vino, carne, ma 
                anche pane e frutta servirono certamente a chi era costretto a 
                restare per mesi; ed è per questo che in vari documenti si 
                possono trovare anche osti interessati alla conduzione dei 
                pascoli. Per esempio nel 1360 i poderi di Uliveto, Salviano, 
                Leccio, Tregolo, ecc., vennero allogati ad Antonio di 
                Ugolino tavernaio di Livorno; nel 1427 era un tale Francesco di 
                Jacopo di Nugola taverniere che conduceva dall'Opera del Duomo 
                di Pisa la quarta parte del pasco e la pastura di Uliveto e 
                Limone (sono i territori vicini al Gabbro). Trascorreva 
                l'inverno. Tra aprile e maggio gli emiliani riportavano le 
                pecore e le capre sui monti, insieme a vari prodotti delle 
                Maremma non coltivabili sugli Appennini (vino, olio, grani 
                saraceni). Sia all'andata che al ritorno lungo le strade maestre 
                una fitta rete di ospizi veniva incontro ai bisogni dei pastori: 
                un pasto, un tetto se pioveva forte, un letto se si era 
                ammalati, informazioni sulla strada da seguire. Se non c'era 
                l'ostello, lungo le vie si poteva trovare una indicazione 
                particolare: un tabernacolo per esempio, e dalla iconografia dei 
                santi si poteva 
                intuire la vicinanza di un luogo sacro. Al Gabbro fu prossima 
                al paese per molti secoli una Maestà: se ci volessimo domandare 
                il significato dei santi raffigurati nell'immagine del 
                tabernacolo - la Madonna, san Michele, sant'Antonio abate - 
                capiremmo dal dipinto di essere vicini ad un castello e ad una 
                chiesa dal titolo a san Michele e ad un luogo sacro dedicato 
                alla Madonna, abitato da religiosi regolari, simboleggiati da sant'Antonio abate (v. la Sambuca e Montenero, ma anche Popogna 
                dove fu una cappella proprio con il titolo a sant'Antonio). Nel Medioevo 
                e forse anche in tempi più lontani esisteva la possibilità per 
                gli stranieri di poter prendere alloggio presso case o quartieri 
                pubblici creati da sovrani o autorità comunali. Questi alloggi 
      coatti incentivavano e controllavano il commercio a lunga distanza. 
      Sebbene nel Basso Medioevo si sappia di una loro graduale scomparsa, ci 
      sembra che possa rientrare in questa categoria, come piccolo fondaco 
      rurale, la masseria del Gabbro. Da: "Gabbro, gente, terre e documenti" di Paola Ircani Menichini, Corrado Palomba, Lando Grassi) scaricabile 
                          dal sito. 
		                                                       
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		I pastori, con rescritto di S.A.S. del 16 maggio 1633, furono 
        autorizzati ad essere armati, malgrado il disappunto delle autorità a 
        far portare armi ai popolani, quando accompagnavano le bestie al pascolo 
        per difenderle dai banditi e dai lupi; segno questo delle condizioni del 
        contado in quei tempi! 
        (Da: "Il Capitanato Nuovo di Livorno" di Renzo Mazzanti)  |