L’arresto
						All’alba del 20 dicembre 1943 un gruppo di carabinieri 
						della stazione di Gabbro (Rosignano Marittimo, Livorno) 
						circondò una cascina poco fuori dal centro abitato. 
						L’obiettivo della retata erano tre famiglie ebree 
						recentemente sfollate da Livorno e arrivate da poche 
						settimane nel piccolo centro. I Bayona, i Baruch e i 
						Modiano, in totale diciassette persone, furono tratti in 
						arresto senza alcuna difficoltà. Nella colonica dove si 
						erano sistemate, le tre famiglie si erano dovute 
						adattare a vivere in ristrettezze: «era una stalla, s’è 
						preso nella macchia dei legni, s’è fatto dei letti, 
						insomma ci si arrangiava a quella maniera lì»; al Gabbro 
						si sentivano però al sicuro, «a quell’epoca lì non ci 
						passava nemmeno per la mente di andare da un’altra 
						parte».1 Isacco Bayona ha lasciato un resoconto 
						dell’arresto particolarmente drammatico nella sua 
						semplicità: «Era ’na domenica, ci siamo trovati con 
						degli amici del Gabbro e s’è fatta ’na festicciola. Ero 
						giovane…s’andava a ballà. Il lunedì mattina, erano le 
						cinque, hanno circondato tutto questo casolare coi mitra 
						spaniati. C’hanno preso gli uomini soli, le donne le 
						hanno lasciate sta’ […]. C’hanno portato alla caserma 
						dei carabinieri del Gabbro, c’hanno tenuto due giorni 
						lì, poi il maresciallo ha dato l’ordine di andare a 
						caricare anche le donne, le bimbe, tutte quelle che 
						c’erano lassù al capannino, dove eravamo sfollati».2
						Uno degli elementi centrali nella vicenda
 del Gabbro è 
						l’assenza dei tedeschi dalla scena del rastrellamento. 
						«Il nostro arresto», avrebbe in seguito ricordato sempre 
						Isacco Bayona, «è da imputare senza dubbio al 
						maresciallo di Gabbro che era pure uno squadrista. Di 
						sua iniziativa, forse per farsi benvolere dai tedeschi, 
						ci arrestò tutti consegnandoci a loro».3 Quella 
						di queste tre famiglie non fu una vicenda isolata. Dopo 
						l’8 settembre, gli ebrei italiani rimasero in uno stato 
						di sostanziale abbandono: pochi potevano immaginarsi 
						cosa sarebbe successo loro e chi ne era cosciente 
						raramente aveva i mezzi materiali per abbandonare il 
						Paese. I Bayona, i Baruch e i Modiano furono anche 
						vittime dello zelo con cui i carabinieri del Gabbro 
						recepirono la celebre ordinanza di polizia n. 5 firmata 
						dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi e 
						trasmessa a tutti i capi delle province della Repubblica 
						Sociale Italiana (RSI) il 30 novembre del 1943:
						A tutti i capi provincia, comunicasi, per l’immediata 
						esecuzione, la seguente ordinanza di polizia che dovrà 
						essere applicata in tutto il territorio di codesta 
						provincia: Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a 
						qualunque nazionalità appartengono e comunque residenti 
						nel territorio nazionale debbono essere inviati in campi 
						di concentramento. Tutti i loro beni, mobili e immobili, 
						debbono essere sottoposti ad immediato sequestro, in 
						attesa di essere confiscati nell’interesse della 
						Repubblica sociale italiana, la quale li destinerà a 
						beneficio degli indigenti sinistrati dalle incursioni 
						aeree nemiche.4
						Il 12 dicembre, a meno di due settimane da questa 
						circolare, le prefetture ricevettero un nuovo telegramma 
						ancora più perentorio nei toni: «In applicazione recenti 
						disposizioni», scriveva il capo della Polizia, «ebrei 
						stranieri devono essere consegnati tutti ai campi di 
						concentramento. Uguale provvedimento deve essere 
						adottato per ebrei puri italiani».5 Mentre i capi 
						delle provincie cominciarono ad allestire i campi 
						d’internamento (talora adibendo a tale scopo le carceri 
						o gli edifici delle comunità ebraiche), i questori 
						iniziarono a ordinare gli internamenti.6 Gli 
						arrestati del Gabbro furono tra i primi della provincia 
						di Livorno, ma ne seguirono molti altri. Nel marzo 
						dell’anno successivo il capo provincia, Edoardo 
						Facdouelle, avrebbe consegnato alle autorità tedesche un 
						gruppo composto di circa sessanta persone che aveva 
						raccolto a Livorno.7 
						
						Ritratto di 
						gruppo
						I rastrellati del Gabbro formavano un gruppo composito. 
						Ne facevano parte: una neonata di pochi mesi (Franca 
						Baruch), quattro bambini (Salvatore Baruch di otto anni, 
						la piccola Flora Modiano di appena cinque anni e le 
						sorelline Dora e Lucia Bayona, di nove e undici anni 
						rispettivamente) e cinque adolescenti (Giosuè, Isacco e 
						Violetta Baruch e i fratelli Bayona, Carlo e Isacco). I 
						più anziani del gruppo erano la nonna di Flora, Gioia 
						Perla Mano (classe 1883), e il capofamiglia dei Baruch, 
						Mosè (classe 1889). In totale erano diciassette persone.
 
						I percorsi di quelle tre famiglie offrono uno specchio 
						fedele delle difficoltà che vissero gli ebrei europei 
						negli anni quaranta. I Bayona, livornesi di origine, 
						erano rientrati in Italia solo nell’aprile 1941 
						provenienti da Salonicco da dove erano dovuti scappare 
						dopo che la città era caduta nelle mani dei nazisti. I 
						Bayona furono rimpatriati in quanto italiani dalle 
						autorità consolari, ma questo non li avrebbe salvati 
						dalla deportazione. Dalla stessa città greca venivano i 
						Modiano, che erano invece giunti a Livorno qualche anno 
						prima, nel 1933.8 Stesso periodo in cui anche i 
						Baruch si erano trasferiti in Toscana dalla città turca 
						di Smirne. Le vicende della famiglia Bayona sono 
						rappresentative del mondo che fu spazzato via con la 
						Shoah. «Mi’ babbo», avrebbe poi ricordato Isacco, «era 
						vicedirettore del monopolio di tabacchi a Salonicco. Con 
						la posizione che c’aveva si stava abbastanza bene. Io 
						frequentavo le scuole italiane, ma ci insegnavano anche 
						il francese; in casa parlavamo lo spagnolo, fuori il 
						greco, è logico».9 Quel mondo scomparve con lo 
						scoppio della seconda guerra mondiale e con l’inizio 
						delle persecuzioni. L’arrivo in Italia e l’inserimento a 
						Livorno non furono facili; Isacco, ancora ragazzino, fu 
						costretto a dover lavorare per aiutare la famiglia: 
						«mandavo avanti la mi’ mamma co’ le mi sorelline. 
						All’epoca c’avevo quattordici anni, e facevo già lavori 
						materiali quasi da uomo».10 
						 
						
						La deportazione
						L’arresto del 20 dicembre fu l’inizio di una 
						deportazione che sarebbe finita solo cinque settimane 
						dopo davanti ai cancelli del campo di sterminio di 
						Auschwitz. Immediatamente dopo il fermo, quando furono 
						cioè fermate anche le donne e i bambini del gruppo, le 
						tre famiglie furono trasferite in una caserma a Livorno, 
						in Via Nazionale. Da qui, svolte poche formalità, il 
						gruppo fu trasferito a Firenze; il capo della provincia 
						di Livorno non aveva infatti potuto organizzare un campo 
						di concentramento nel proprio territorio e, in questa 
						prima fase della deportazione, si “appoggiava” alla 
						Questura di Firenze.11 Le tre famiglie furono 
						prima “registrate” presso il locale comando tedesco e 
						poi internate nel carcere cittadino delle Murate, dove 
						ci fu una divisione tra uomini e donne. Quando le 
						autorità ritennero di aver concentrato un numero 
						sufficiente di ebrei, questi furono portati alla 
						stazione di Firenze e fatti salire su dei vagoni 
						piombati.12 Erano gli ultimi giorni del dicembre 
						1943. La tappa successiva fu il carcere milanese di San 
						Vittore. «C’hanno assegnato una cella. Però la sera la 
						nebbia c’entrava nei materassi, eran bagnati 
						praticamente. Ero nella cella insieme a mi’ madre e ho 
						sentito un boato: mi sono affacciato alla ringhiera, ho 
						visto un omo che si era buttato da cinque piani. Ho 
						incominciato a capire che s’andava incontro a cose 
						brutte, infatti io, quando poi ci hanno portati via, ho 
						cercato di scappare. Invece l’ufficiale tedesco m’è 
						venuto incontro, mi ha dato un calcio col fucile una 
						botta sulla mano».13 Dal settembre del 1943 due 
						raggi di San Vittore erano stati riservati ai detenuti 
						politici e agli ebrei; a gestire questa parte del 
						carcere era stato chiamato il tedesco Helmut Klemm, 
						membro delle SS.14 Le autorità italiane, in 
						collaborazione con quelle tedesche, stavano radunando 
						gli ebrei arrestati nelle settimane precedenti in tutto 
						il territorio nazionale. Raggiunto il numero minimo per 
						organizzare un convoglio i detenuti furono prelevati in 
						massa da San Vittore e portati alla stazione centrale di 
						Milano. «Tutti gli ebrei, la notte del 30 gennaio, 
						vennero allineati nel grande corridoio del carcere e 
						furono fatti sfilare dal cancello sotto le canne delle 
						mitragliatrici», avrebbe poi ricordato uno dei presenti, 
						«alla stazione i deportati furono portati nei 
						sotterranei, lontano da sguardi indiscreti e caricati 
						direttamente sui carri bestiame in sosta. Su ognuno si 
						trovava una damigiana di acqua e un recipiente di 
						modeste proporzioni per i bisogni corporali. Il vagone 
						fu chiuso e sprangato e il convoglio si avviò».15 
						Le famiglie Bayona, Baruch e Modiano erano tra quei 
						circa 600 deportati diretti verso la Polonia in un 
						viaggio che sarebbe durato sette/otto giorni. Dei 
						diciassette arrestati al Gabbro l’unico a tornare dal 
						campo di sterminio di Auschwitz sarebbe stato il 
						diciassettenne Isacco Bayona. 
         
						
						Note
						1 Marcello Pezzetti, Il libro della Shoah 
						italiana – I racconti di chi è sopravvissuto, 
						Einaudi, Torino, 2009, p. 73.
						2 Ivi, p. 85-86.
						3 Citato in: Valeria Galimi, “Caccia 
						all’ebreo. Persecuzioni nella Toscana settentrionale” 
						in: Enzo Collotti (a cura di), Ebrei in Toscana tra 
						occupazione tedesca e RSI – Persecuzione, depredazione, 
						deportazione (1943-1945), 1. Saggi, Carocci, Roma 
						2007, p. 202.
						4 ACS, MI, PS, A5G II guerra mondiale, b. 
						151, fasc. 230 “Ebrei”.
						5 ACS, MI, PS, Divisione affari generali e 
						riservati, Serie “Massime”, b. 183, fasc. 19 “Ebrei da 
						internare”.
						6 Michele Sarfatti, La Shoah in Italia – 
						La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, 
						Einaudi, Torino, 2005, p. 103.
						7 ACS, MI, PS, Divisione affari generali e 
						riservati, Serie “Massime”, b. 183, fasc. 19 “Ebrei da 
						internare”.
						8 ASLi, Fondo di Questura, Cat. A1, fascicolo 
						Baruk Moisé.
						9 Pezzetti, op. cit., p. 11.
						10 Ivi, p. 39.
						11 ACS, MI, PS, Divisione affari generali e 
						riservati, Serie “Massime”, b. 183, fasc. 19 “Ebrei da 
						internare”.
						12 Intervista a Isacco Bayona (09 aprile 
						1998), pagina web: Ti racconto la storia: voci dalla 
						shoah (http://www.shoah.acs.beniculturali.it/index.php?page=Home&lang=it).
						13 Pezzetto, op. cit., p. 105-106.
						14 Liliana Picciotto Fargion, Gli ebrei 
						in provincia di Milano 1943-1945, persecuzione e 
						deportazione, Fondazione Centro di Documentazione 
						Ebraica Contemporanea, Milano, 2004, p. 28.
						15 Ivi, pp. 42-43.  
						(Dal sito http://istorecolivorno-ldm.it)