Quando i rom eravamo noi
					Anni 20-30. Le donne di Castelnuovo, ma anche del Gabbro, 
					raccolgono frutta ed ortaggi e con le loro ceste in testa 
					appaggiate sul "cercine o cuffaro" si mettono in cammino per 
					raggiungere il vicino centro balneare, attraverso i sentieri 
					più brevi, ma anche più scoscesi del Poggio Pelato e portare 
					così a compimento minimi affari. A Nibbiaia hanno uguale 
					inclinazione al commercio ambulante, ma la loro méta è ancor 
					più lontana: Livorno. Questa foto di inizio '900 mostra 
					crudemente la lacerante, misera condizione delle donne che 
					si presentano vestite di stracci ed anche scalze 
					trascinandosi dietro i figli, alle ville dei ricchi 
					villeggianti di Castiglioncello, spesso considerate più 
					accattone che venditrici. 
					
					Ma leggiamo come descrive questo crudele contrasto Viviana 
				Molinari in Bella Marea (1989)  
				"A Castiglioncello fra le signore c'era un gran fervore di bontà 
				e di opere buone. La nonna, le sue facoltose principesse e la 
				signora Valori (moglie del noto giornalista Aldo Valori, madre 
				di Bice, futura attrice, di Michele e di Paolo, che si farà 
				sacerdote e diverrà un sottile indagatore dell'animo umano), si 
				occupavano alacremente di beneficienza, organizzavano treni per 
				Lourdes e il centro di smistamento per i bisognosi era villa 
				"Antonietta", casa nostra... Davanti al cancello di servizio la 
				nonna aveva fatto costruire delle panchine di marmo dove i suoi 
				beneficati potevano comodamente attendere che si desse loro 
				udienza. Riceveva dalla terrazza, attrezzata a cabinet de travail, con mobili che sembravano quelli usati nei palcoscenici 
				e da lì parlava con i suoi poveri. 'Signora, c'è la 
				massaggiatrice!'. 'Dille che cominci' diceva la nonna che era 
				molto distratta. 'Io, intanto, parlo col povero della Colonna e 
				vengo 
				subito!'. I bambini handicappati erano soprannominati “bambini 
				azzurri”; i malati chiamati “figli del sole”, secondo un 
				suggerimento dato da madre Balsari, ... amica inseparabile della 
				nonna. Tutti gli altri poveri erano distinti gli uni dagli altri 
				non dal proprio cognome, ma da quello del loro benefattore... 
				'Non bisogna guardarli troppo!', diceva mia madre a proposito 
				dei poveri, accorgendosi di qualche mio interesse di bambina. 
				Per la verità tutti quei postulanti non suscitavano in me 
				sentimenti di carità; diffidavo, anzi, di quell'andirivieni che 
				si svolgeva sotto i miei occhi. Non potevo capire. Vivevo ancora 
				non contaminata dalle strutture sociali e religiose che 
				stabilivano una distinzione arbitraria tra bene e male. Non 
				sapevo cosa significasse il privilegio di classe. Perché e come, 
				loro fossero poveri e io no... Io vedevo in quella gente 
				diversità, stravaganza; un modo a me assolutamente sconosciuto 
				di esistere. Qualche paragone certamente riuscivo a farlo. 
				Capivo benissimo quanto fossero differenti i miei genitori da 
				loro, ma ignorando la maggior parte delle cose, non potevo 
				giudicare se non dal mio piccolo passato; non certo da una 
				prospettiva etica e, tantomeno, sotto una visuale sociale 
				caritatevole. Qualche cosa, però, tutta quella gente che si 
				lavava poco e si vestiva così male, doveva suscitare in me... 
				profittavo dei poveri della nonna, della soggezione in cui 
				quella gente versava, in modo astratto, quasi crudele solo per 
				divertirmi... I contadini del Gabbro e Castelnuovo, zappavano 
				malignamente la terra degli altri, col cuore in rivolta, ma 
				senza poter fare nulla. Unica speranza di quegli uomini era 
				quella di pazientare, di aspettare il momento propizio; intanto 
				lasciavano che le mogli, i figli, fruissero della carità delle 
				magnanime villeggianti ai quali portavano la loro frutta. E le 
				loro donne, con furbizia contadina, lasciando da parte ogni 
				forma di dignità, andavano a blandire quelle pingui signore con 
				accattivanti sorrisetti, appena dischiusi su labbra sottili, 
				cattive. Per poche lire dovevano stare al gioco di chi voleva 
				tranquillizzare la propria coscienza pagandosi l'ingresso in 
				paradiso con soccorsi alla chiesa e ai suoi poveri"...Con quel 
				tipo di carità spirituale le dame castiglioncellesi che, in 
				definitiva, si privavano di qualche lira superflua, 
				contrattavano con i loro preti, nientemeno che un posto in 
				Cielo! “Io sfamo i tuoi poveri, tu aprimi le porte del 
				Paradiso!”...I gaudenti, come sempre, erano in minor numero dei 
				miserabili che nascostamente soffrivano. Le piaghe sociali di 
				un’italietta povera, afflitta da paludismo, pellagra, 
				tubercolosi, erano una realtà presente, ma ignorata, 
				dimenticata. I bambini dei poveri crescevano male, erano di 
				statura bassissima ed ignoranti. Arrivati a una certa età, se 
				potevano, emigravano. Insufficienti dunque gli sforzi 
				caritatevoli della nonna e delle sue dame. Né bastavano in alcun 
				modo le previdenze fasciste, tanto meno quelle ecclesiastiche. 
				Il Duce, come diversivo, invitava la gioventù a zappare la terra.
				 (Da: 
				"Bella Marea" di Viviana Molinari 
				scaricabile dal sito) 
				
                                 LE GABBRIGIANE
				Nei paesi di Gabbro e Castelnuovo, facenti parte del comune di 
				Rosignano Marittimo a circa metà strada tra Rosignano e Livorno, 
				c’erano molte donne che facevano la spola tra questa città e la 
				nostra campagna: erano dette le Gabbrigiane. Esse andavano a 
				piedi a Livorno, con una canestra in testa, a vendere i prodotti 
				della corte: polli, conigli e uova raccolti in campagna. Al 
				ritorno portavano alle massaie campagno
le, loro fornitrici, 
				stoffe, aghi, cotone e tutto l’occorrente per confezionare 
				vestiti in casa o altro che veniva loro commissionato. Erano 
				donne (fra loro la più assidua, da noi stimata e benvoluta, era Leonetta, nella foto), che settimanalmente venivano a domicilio e, 
				con buon carattere, avvicinandosi alle case (queste sempre con 
				la porta aperta o al massimo chiusa con la sola nottola) 
				chiamavano le massaie ad alta voce, quasi cantando: “Argene, 
				Rosa, sora Isola, arriva la Gabbrigiana! Ce l’avete l’ova?”. Per 
				le massaie questo era il momento per fermarsi, per riposarsi, 
				per vendere qualche prodotto coltivato o allevato e incassare 
				qualche spicciolo, ma anche l’occasione per essere messe al 
				corrente di quanto succedeva in città e nei  dintorni. Era una maniera per 
				socializzare, per riposarsi. Le Gabbrigiane erano anche le 
				informatrici dell’evoluzione della moda. Anche per merito loro, 
				seppur molto lentamente, le giovani contadine abbandonarono la 
				“pezzola” annodata sotto la gola e cominciarono a mettersi il 
				cappello di paglia a larghe tese che le Gabbrigiane vendevano 
				dopo averne fatto acquisto a Livorno.  
				(Da: "Un ragazzo in Toscana 
				negli anni quaranta" di Piero Santi)